8.5
- Band: MORBID ANGEL
- Durata: 00:51:36
- Disponibile dal: 24/02/1998
- Etichetta:
- Earache
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Per alcuni, l’inizio della fine. Un giro di boa coincidente con il primo annaspamento nelle acque del mercato dopo la perdita di un frontman iconico e carismatico come David Vincent. Per altri, l’avvio di una seconda fase di carriera certamente meno altisonante della prima, ma comunque in grado di consegnare al grande libro del death metal almeno un paio di pagine di rara profondità e forza immaginifica. Per chi ha davvero saputo interiorizzarne l’essenza, un viaggio allucinatorio fra le spirali di suono trascendentale, ultraterreno, bagnato di colori scarlatti come quelli del surreale dipinto di Nizin Lopez in copertina (già coinvolto l’anno precedente nell’artwork del non meno discusso “Serpents of the Light” dei Deicide).
Un album che era – ed è tuttora – l’affermazione di una precisa estetica musicale, di un modo di intendere il genere ‘altro’ rispetto a quello abbracciato da colleghi anche illustrissimi e giustamente incensati per le loro qualità, il cui districarsi fra soluzioni spigolose e atmosfere stranianti ci porta dritti nella mente (e nel cuore) di Trey Azagthoth, vero mastermind del progetto americano che in questi cinquanta minuti di musica sembra voler dire ai fan e ai Grandi Antichi in ascolto: “Eccomi, questi sono i Morbid Angel”. Senza il contraddittorio assicurato da una personalità altrettanto forte e ingombrante – quella di Vincent, appunto, che tanto aveva impattato sul contenuto e sulle tematiche del militaresco “Domination”, ma anche quella del giovane Erik Rutan, in quel momento impegnato a lanciare gli Hate Eternal – il Nostro riversa tutto se stesso in questi solchi, quasi che il pentagramma fosse un confessionale o un diario in cui intrappolare per sempre la voce della propria anima, per una scelta coraggiosa, di non immediata comprensione, che ancora oggi aliena parte del pubblico. E che l’abissale “Gateways to Annihilation” ha poi replicato nell’ultimo grande capolavoro della band.
È importante quindi dimenticarsi della sensualità e dell’approccio ‘orecchiabile’ dei capitoli A-B-C-D, sottile retaggio della passione del frontman originario per i classici metal e hard rock degli anni Ottanta; “Formulas Fatal to the Flesh” (la ripetizione della ‘f’, sesta lettera dell’alfabeto, va a richiamare il celebre Numero della Bestia) è innanzitutto un’opera di death metal tetragono e frastagliato, giocata su alchimie lancinanti e su una ricerca della velocità che la pone – insieme a “Covenant” – sul podio dei lavori più brutali del gruppo floridiano. Florida che, con le sue paludi e i suoi acquitrini malsani, viene in qualche modo evocata anche a livello sonoro, con una produzione fangosa e tutt’altro che pulita ad avvolgere la performance del suddetto chitarrista, del fidato Pete “Commando” Sandoval dietro le pelli (responsabile di due dei cinque interludi del disco, tra cui spicca l’oscuro tribalismo di “Hymnos Rituales de Guerra”) e del neo-acquisto Steve Tucker alla voce e al basso, all’epoca privo di referenze significative ma presentatosi all’appuntamento della vita con una notevole dose di attributi e con un growling inquisitorio che, a suo modo, farà scuola. La partenza affidata a “Heaving Earth” setta immediatamente il livello di tensione e ostilità dei successivi episodi della tracklist: poco meno di quattro minuti in cui, a testi evocanti gli ancestrali nomi del pantheon mesopotamico, si accompagna un’interpretazione strumentale contorta, febbrile e capace di sferzare la carne come un maglio, la quale verrà poi ripresa – venendo a tratti estremizzata – in brani ritmicamente estenuanti del calibro di “Bil Ur-Sag”, “Chambers of Dis” e “Hellspawn: The Rebirth” (quest’ultima ripescata e riadattata dall’esordio disconosciuto “Abominations of Desolation”).
In un lavoro tanto intenso non mancano comunque le genuflessioni all’altare del rallentamento: “Nothing Is Not” è il suono di una parata fra i corpi martoriati dei nemici sconfitti, con un Tucker assolutamente da brividi quando declama “I’m the Collector of Souls / For they’re never past my control / I take of what is and nothing of that I give / I’m the Alpha Omega / My Way in Itself, complete / I Am The Continuum”, mentre “Umulamahri” cita con gusto il mega-classico “Where the Slime Live” senza ovviamente eguagliarne la potenza e l’espressività, ma dando seguito agli esperimenti in voce filtrata di quel periodo. Menzione speciale, infine, per la suite “Invocation of the Continual One”, dal forte vibe thrash e intarsiata di fregi chitarristici dal sapore ora classico e tradizionale, ora impressionista e onirico, con lo stesso Trey intento a cimentarsi in uno screaming perverso che ben si adatta al mood della canzone.
In definitiva, sebbene non regga il confronto con le opere più celebrate della discografia dell’Angelo Morboso, “Formulas…” resta un album speciale per tanti motivi; una raccolta intimista nell’accezione più pura e sincera del termine, all’interno della quale George Michael Emmanuel III si mise a nudo con un coraggio e una genuinità che – a distanza di ventiquattro anni – riescono ancora a mozzare il fiato. Da riscoprire.