5.5
- Band: MORBID ANGEL
- Durata:
- Disponibile dal: 23/09/2003
- Etichetta:
- Earache
- Distributore: Self
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Liriche esistenziali di stampo esoterico, il lancio di un drumming pirotecnico con un uso della doppia cassa a funzione portante (protratto per l’intera durata del brano), poliritmie a non finire, e un approccio agli assoli che dava finalmente un senso compiuto al concetto di “misterioso” e “distrurbante”. Questo ed altro sono stati i Morbid Angel nel corso degli anni ’80 e per buona parte dei ’90, fino all’abbandono del leader Dave Vincent, all’indomani dell’ inarrivabile “Domination”. Che le tappe successive della band non siano mai più state all’altezza di quel lavoro (per non parlare dei precedenti) è opinione consolidata, con la formazione indecisa se rifarsi alla ferocia degli esordi oppure imboccare un sentiero di ricerca, cullando l’aspetto progressivo della propria proposta.
La stessa insicurezza traspare dal nuovo “Heretic”, disco tribolato nella gestazione, con i Morbid Angel smembrati del proprio organico (via per sempre Erik Rutan ed il convalescente polistrumentista Jared Andersson), ridotti all’osso, con i due superstiti Azaghthoth e Sandoval, coadiuvati dal rientrante Steve Tucker. Povera e monotona la proposta, basata su stilemi compositivi sempre efficaci, ma che non impressionano più l’orecchio degli ascoltatori più smaliziati.
Resta una tecnica inarrivabile, magistrali riff low-tuned partoriti dalla 7 corde (“Enshrined By Grace”), l’effetto alienante provocato dai raddoppi ritmici e dalla particolarissima scelta di intervalli (“Beneath The Hollow”), il limbo elettrico di “Place Of Many Deaths” e l’ideale seguito della celebre “Desolate Ways”, che qui prende il nome di “Memories Of The Past”, un saggio per chitarra acustica che rivela ancora una volta l’approccio cinematografico di Azaghthoth, intento a evocare scenari curiosamente in linea con un certo folklore siciliano. Restano accelerazioni al fulmicotone ed un impianto lirico/numerologico di grande spessore, traspare orgoglio per le proprie radici, la stessa consapevolezza nei propri mezzi che fa sì che in chiusura di lavoro siano posti due siparietti solisti (“Drum Check” e “Born Again”) che sanno troppo di riempitivo. Anonima, ma non è una novità, la prova del figliol prodigo Tucker, così come discutibile si rivela la produzione (con un mixaggio soffocante), affidata stavolta al fido ingegnere del suono Juan Gonzalez.
Un album formalmente impeccabile, ma che a livello di contenuti latita profondamente.