8.5
- Band: MORTEM
- Durata: 00:45:32
- Disponibile dal: 27/09/2019
- Etichetta:
- Peaceville
- Distributore: Audioglobe
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Si entra nel vero e proprio mito con questo esordio discografico di una delle prime band black metal in assoluto. Risale infatti a trent’anni fa il demo “Slow Death”, con cui i Mortem si affacciavano sulla scena per poi sparirne completamente; protagonisti Marius Vold, Steinar Sverd Johnsen ed Hellhammer, gente che per riassumere brevemente ha in seguito fondato (o suonato in) band come Arcturus, Thorns/Stigma Diabolicum e Mayhem, e che pubblicò nel 1989 una cassetta prodotta da Euronymous con copertina disegnata da Dead. Manca ben poco all’appello, insomma, per farne il ritorno più atteso e sofferto dell’intero genere. Per fortuna, la caratura e l’esperienza dei musicisti coinvolti non cede a una banale o trita operazione nostalgia; la scrittura dei brani è oltremodo classica, pur con una produzione giustamente moderna, con uno Sverd in evidente stato di grazia nel ruolo di compositore e arrangiatore. I riff di chitarra sono furiosi e trascinanti, le tastiere magniloquenti ma mai barocche, in linea coi venti gelidi e le torbide atmosfere che tale strumento sapeva evocare nei primi esperimenti symphonic della scena norvegese. Hellhammer, un batterista non certo noto per la sua capacità di mordere il freno, è anche in questo lavoro sugli scudi per la prestazione tentacolare, pur riuscendo a non essere mai strabordante: ascoltate “Blood Horizon”, una vera tempesta dietro le pelli, che funziona a meraviglia nell’evocare uno sguardo sull’infinito insanguinato dipinto già dal titolo. Il suo drumming è quasi un contrappunto di gusto vagamente prog alla costruzione quadrata e in puro stile ‘second wave’ delle canzoni. Vold opta invece per un cantato aspro e gracchiante, eppure espressivo, evoluzione naturale di quanto sentito illo tempore su “My Angel”, il capolavoro degli esordi degli Arcturus. La pulizia del mixing aggiunge assolutamente qualità alla fruizione complessiva, esaltando i momenti in cui il basso pulsante (suonato da Seidemann dei 1349, un altro che non spunta esattamente dal nulla) passa in primo piano, oppure le chitarre costruiscono trame avvolgenti e senza tempo sulle armoniche. “Ravnsvart”, il corvo nero foriero di profezie mortifere, è un album da ascoltare con attenzione ai dettagli ma anche tutto d’un fiato – svariate volte, quindi. Potrete così essere ammaliati dalle oscure fughe di brani come la titletrack o l’incalzante e insieme disperata “Truly Damned”, oppure frustati dall’uptempo di “Sjelestjeler”, dove il tempo dispari lascia una sensazione di affanno e attesa incrementata dal riff circolare che compare nella seconda parte del brano. I pezzi meno lineari ci ricordano come attorno a questa band orbitasse già al tempo l’altro monstrum della sei corde norvegese, ossia Snorre Ruch alias Blackthorn; la sua ombra si diffonde su pezzi dalla cadenza vagamente industrial come “Morkets Monolitter” o “Demon Shadow”, il cui finale è tra i momenti più sublimi del disco, così come il commiato affidato a una doppietta di brani che fanno rimpiangere la furia glaciale canonizzata dagli Immortal. C’è veramente tutto quello che definì un lustro strepitoso, dentro questo disco; otto sfaccettature di un affresco che riprende, fortifica ed esalta un mondo musicale che ha rivoluzionato il concetto di estremo a partire dalla periferia di Oslo. Dimostrando che la parola fine (o noia) non è ancora scritta, per il black metal.