7.0
- Band: MOTORHEAD
- Durata: 00:38:21
- Disponibile dal: 15/05/2000
- Etichetta:
- SPV Records
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Scocca l’anno 2000 e i Motörhead si ripresentano regolarmente al proprio pubblico con un disco classicissimo, che li vede nuovamente in prima linea in uno scenario finalmente più ricettivo verso sonorità vecchio stampo dopo anni di vacche magre. Il titolo dell’album suona come una chiarissima dichiarazione d’intenti, un manifesto della propria forza d’animo, un modo per segnalare che loro ci sono ancora, non hanno mai smesso di lottare per la causa dell’hard rock di qualità e sono pronti a farlo fino al termine dei loro giorni. Cosa che poi, puntualmente, avverrà. La formazione a tre elementi viaggia sicura, sulle ali di un affiatamento e di una mancanza di problemi interni come forse gli inglesi mai avevano conosciuto fino a quel momento. Rispetto ad alcuni capitoli precedenti della loro lunga storia, i Motörhead questa volta non si connotano per qualche approccio fuori dalle righe e mettono in fila una sequenza di canzoni prive di uscite dal seminato, dall’ispirazione tendenzialmente buona, anche se a conti fatti “We Are Motörhead” è annoverabile tra le opere ‘normali’ della storia motörheadiana, non tra i gioielli imperdibili. Però, come quasi tutti i capitoli discografici marchiati da Lemmy, i pezzi entrati nella storia ci sono eccome. Invertiamo allora l’ordine della tracklist e partiamo appunto dalla title track, che fa il verso al leggendario saluto del singer prima di ogni concerto, quando arrivava on stage e si annunciava al suo pubblico così: “We are Motörhead and we’re gonna kick your ass”. Un giro di basso volutamente assonante a quello di “Ace Of Spades” apre una fucilata di poco più di due minuti, una bomba atomica costruita su un numero ristretto di accordi, inversamente proporzionali al sudore, all’entusiasmo, all’orgoglio buttati in campo, con la stessa freschezza di quando la vecchia pellaccia ubriaca di Jack Daniel’s, uscita dagli Hawkwind, si gettava a capofitto nella nuova avventura musicale. Nel verso “we know alchemy, we bring you rock and roll” è racchiusa la storia della band, esso sintetizza in una manciata di parole la missione del manipolo di bastardi che ha positivamente agitato le menti di milioni di persone in oltre quarant’anni di carriera. Non è un caso se “We Are Motörhead” non uscirà più dalle scalette dei tour, cosa che accadrà anche per la cover dei Sex Pistols “God Save The Queen”, dal vivo prontamente accelerata rispetto alla versione qui contenuta, comunque splendida. Se questi due sono i pezzi cardine, ciò che rimane fronteggia a testa alta la gloriosa storia del terzetto, inanellando disinvoltamente up-tempo al limite del parossismo (“See Me Burning”), caustiche bordate di rock’n’roll ipervitaminizzato (“Out Of Lunch”, “Stay Out Of The Jail”), potentissimi mostri di fuoco lanciati verso la distruzione, toccando rumorosità da arresto per disturbo della quiete pubblica (il massacro di “Stagefright”/”Crash & Burn” e la rombante “(Wearing Your) Heart On Your Sleeve”). Provano a elaborare pensieri più articolati le due composizioni più lunghe, poste una di seguito all’altra. La prima, “Wake The Dead”, presenta Lemmy nella sua veste ambigua e sinistra, quella che tante altre volte, in un passato più o meno recente, è parsa scendere a compromessi con il maligno e a farsi promotrice di una musicalità d’ampio respiro, dove sezioni meno irruente fanno capolino all’interno del consueto caos di note sparate a mille all’ora. Il basso vede mitigato in parte il suo impatto da una strana effettistica, la voce si porta a brevi tratti su recitativi disagevoli, mentre Mikkey Dee costruisce una serie di cicli ritmici sempre più incalzanti, fino alla stoccata finale. “One More Fucking Time” è una signora ballad, amara e un po’ fatalista, nella quale Lemmy sembra ricordarsi di qualche amore passato, riflette sul significato della vita e sui momenti trascorsi con l’oggetto del suo affetto, spendendosi in un testo tormentato e bellissimo. L’assolo sfumato di Campbell si staglia quale ritaglio di malinconica bellezza al termine di un pezzo tra i più sentiti e, sì, romantici firmati dai Motörhead. Perché non di sola rabbia e divertimento vive l’uomo e, anche in questo, Lemmy è stato un maestro. Anche se in un modo, ovviamente, tutto suo.