7.5
- Band: MOTORPSYCHO
- Durata: 00:43:32
- Disponibile dal: 19/08/2022
- Etichetta:
- Stickman Records
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Sempre uguali a se stessi, eppure sempre in qualche modo in grado – se non proprio di stupire – di donare ai propri ascoltatori un disco degno di interesse. Quante band posso fregiarsi di questa grande peculiarità quanto i Motorpsycho?
Ridotti questa volta ‘ufficialmente’ a trio, dato che il loro abituale collaboratore Reine Fiske è stato trattenuto dal Covid in Svezia durante la produzione, i Motorpsycho arrivano a questo disco memori, come il loro pubblico, di una mastodontica trilogia fatta di album sì indipendenti ma sottilmente legati, e non potevano che scegliere un approccio differente, sicuramente ragionato ed elaborato, ma molto più legato all’urgenza espressiva dei loro concerti. Scelta che ha trovato piena rispondenza nella registrazione in presa diretta, con la sola aggiunta della voce in ultima istanza e minimi ritocchi in post-produzione: il risultato sono appena quattro pezzi, dalla durata molto variabile, eppure tutti estremamente funzionali e coesi. “The Ladder”, dopo l’ingresso in un mondo onirico, prende la forma della più classica ‘cavalcata’ di casa Motorpsycho, con il continuo contrappunto tra l’energia di chitarra e basso e la trasognata voce di Bent; nel complesso, il brano mostra come siano sempre più immersi negli anni Settanta, soprattutto quando arriva l’incalzante bridge, che si tratti di rock, di prog o perché no di kosmische music, di cui non sono pochi gli echi fin dalle prime note del disco; un amore certo non nuovo, ma che trova qui piena forma, esaltando l’ariosità space dei Tangerine Dream e la drammaticità quasi mistica dei Popol Vuh. Ecco che non a caso la brevissima – specie per i canoni della band – “The Flower Of Awarennes” altro non è che un intermezzo fatto di frammenti rumorosi d’ambiente, perfetto per introdurre “Mona Lisa Azrael”, che nella sua prima metà, delicata e trasognata, non stonerebbe se accostata ai brani più lenti di “In The Court Of The Crimson King”, prima di trasformarsi in un duello tra una chitarra acidissima e la sezione ritmica sincopata. Non è chiaro se la band norvegese stia percorrendo un viaggio a ritroso nella storia della musica (magari un riferimento al misterioso titolo dell’album?), o semplicemente trovi ormai soddisfazione solo nel mettersi alla prova con qualunque forma espressiva disponibile. Qualunque sia la risposta, se ricordate, la lunga suite “N.O.X.” presente sul precedente disco nasceva come colonna sonora per “Sacrificing” una performance di danza di Homan Sharifi e della sua Impure Dance Company, e sia questo brano che il seguente sono integrazioni per parti che richiedevano ancora di essere musicate. Così, similarmente a quanto avvenuto prima, i droni al rumor bianco che chiudono questo momento si trasfigurano nelle pennellate sintetiche che aprono “Chariot Of The Sun” (completa di sottotitolo degno di Lina Wertmüller), subito raddoppiate da una chitarra bucolica; gli oltre venti minuti sono una continua stratificazione di sensazioni ed emozioni, non prive di accelerazioni e sfuriate possenti, momenti lisergici e trasvolate interstellari, che oltre a riportare alla loro dimensione live, chiudono il cerchio dell’incontro tra krautrock e Grateful Dead, eterna stella polare della band.
Niente di nuovo, probabilmente, ma come scrisse Bill Graham proprio della band di John Garcia, “non sono i migliori in quello che fanno, ma sono gli unici a farlo in questo modo”: non sarà un caso che proprio questa citazione apra le note promozionali di questo disco, e che la frase sia perfettamente adattabile ai Motorpsycho.