7.5
- Band: MOURNING DAWN
- Durata: 00:52:18
- Disponibile dal: 12/01/2024
- Etichetta:
- Aesthetic Death
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Avida di sofferenza e di tutti i suoi nefasti effetti, la creatura a nome Mourning Dawn del musicista francese Laurent Chaulet fa di tutto per dare un’interpretazione della negatività il più ampia e dettagliata possibile, eludendo eccessivi formalismi e non uniformandosi troppo facilmente ai canoni del genere di appartenenza.
In questi anni i Mourning Dawn hanno rappresentato, assieme ai colleghi e connazionali Funeralium e Ataraxie (nei primi, Chaulet e il bassista Vincent Buisson hanno militato per brevi periodi), un modo tutto francese di comunicare ansie e prostrazione. In tutte e tre le band citate è percettibile un’intossicata cattiveria di fondo che su tonalità doom, dalle variegate gradazioni di black, death e doom, si coniuga solitamente o attraverso una severa eleganza, oppure una schietta e asfittica brutalità, se non tramite una solennità quasi sacrale. Per questi tre gruppi la questione è differente: c’è un malessere indotto da fatti di vita che si esplica in una rabbia virulenta, sordida, cruda e senza speranza.
A un tale cocciuto sentimento di fondo, i Mourning Dawn hanno finora contrapposto un eclettismo a tratti fin disorientante: date le predette tematiche, ci si aspetterebbe una musica incanalata su costrutti più monolitici e fissi, mentre la realtà dei loro album ci parla di una diversificazione molto forte all’interno delle tracklist, di sonorità nitide e dettagliate, orientamenti melodici che vanno dalla fredda spietatezza, a un’evocatività malinconica che suona quasi malsana, considerato il morboso pessimismo generale.
Le tonalità grigio/biancastre dell’artwork di “The Foam Of Despair” lascerebbero trapelare l’idea di un nuovo cambio di scenario per Chaulet e i suoi sventurati compagni di brigata, ed è in effetti un’intuizione che trova corrispondenza negli accadimenti musicali. Mai avari di melodia e di costruzioni cangianti, questa volta i Nostri hanno approfondito ulteriormente i propri arrangiamenti, assecondando la volontà di spaziare in atmosfere ondivaghe e umorali, che non si possano comprendere in pochi ascolti e offrano interpretazioni ambigue di quanto suonato.
L’indirizzo lievemente più scorrevole e meno ostile, pur all’interno di un canovaccio dove la disperazione del titolo emerge nitida in modo naturale ed eloquente, lo si coglie fin dalla traccia di apertura, “Tomber du Temps”. A collegare con plateale asprezza l’ultimo nato con i nefasti capitoli precedenti è la voce rancorosa di Chaulet, un misto di latrati depressive black metal e più tetre linee death-doom, interprete perfetto per una musica fatta di tanti strati ma nel suo midollo brutalmente istintiva. Il chitarrismo del leader artistico e spirituale dei Mourning Dawn è anche stavolta l’elemento di massima caratterizzazione e, come anticipato, prova ad amalgamare tante differenti interpretazioni del malessere in note.
Un raffinamento nei suoni e nell’approccio fa sì che l’impasto di black, death e doom vada ad aprirsi a melodie più ariose, suggestionando per via di un respiro quasi ‘katatonico’ – da intendersi con uno sguardo privilegiato al periodo di “Brave Murder Day” e “Discouraged Ones”. Un taglio relativamente agile che può anche ricordare, seppur più vagamente, alcune cose dei Novembre, solo intossicati di un tocco malvagio e perverso che, nel caso della formazione francese, di andarsene completamente non ne ha proprio voglia. Neanche quando le formule si fanno compatte e ad alto potenziale di suggestione, come in “Blue Pain”, costruita per essere una specie di singolo e di ‘bigino’ buono per essere apprezzato anche da ascoltatori non così avvezzi a suoni ruvidi e ‘evil inside’ come quelli dei Mourning Dawn.
Nutrita la platea degli ospiti, e sono tutti contributi che danno un loro sostanziale apporto alle tracce dove sono chiamati in causa: ecco allora la piega sinistramente melliflua dell’opener, traghettata al suo approdo conclusivo dal sax di Adrien Harmois; oppure le ottime incursioni elettroniche e il feeling trip-hop di “Suzerain” (ad opera dell’ospite A.K.), un incastro splendidamente orchestrato e foriero di atmosfere sofisticate quanto basta per dare nuovo slancio al doom estremo dei quattro.
Lo sforzo per dare identità univoca a ogni episodio non si ferma qua, Chaulet è songwriter di acclarata competenza e sa osare con misura: i chiaroscuri della sua chitarra e la varietà delle linee vocali, con ampio ricorso a parti parlate instillanti desolato grigiore, permeano di drammaticità ogni momento del disco, che trasuda ancora una volta la rabbia di chi ha subito troppi torti, troppe frustrazioni, e non ha altro modo per reagire che convogliare i suoi sentimenti negativi in musica. La pulizia di alcune melodie sa essere però un ruggito di indomita vitalità, come quelle che si stagliano in “Borrowed Skin”, a contrasto delle strofe più irrequiete del brano.
Una verve ritmica di un certo mordente e una produzione di alto livello mettono gli ultimi tasselli a un album intrigante, per come riesce a rimescolare influenze e costrutti già noti, aggiungendovi nuove interpretazioni e soluzioni inedite. Un inizio dell’anno musicalmente uggioso come il tempo atmosferico fuori dalle nostre porte.