7.5
- Band: MYLES KENNEDY
- Durata: 00:50:40
- Disponibile dal: 09/03/2018
- Etichetta:
- Napalm Records
- Distributore: Audioglobe
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Se le qualità di Mark Tremonti in versione solista sono ormai note ai più – anzi, con quattro album in sei anni, i Tremonti sembrano ormai essere l’occupazione principale del chitarrista italo americano -, c’era invece una certa curiosità intorno al debutto solista di Myles Kennedy, in lavorazione da tempo ma più volte rimandato complici gli impegni con gli Alter Bridge e Slash. Aggiungiamoci la scelta di un concept molto personale – legato alla scomparsa del padre nel 1974, ovvero l’anno della tigre nel caledario cinese – ed ecco spiegato l’interesse intorno a “Year Of The Tiger”, album di debutto licenziato dalla sempre più pervasiva Napalm Records. Liberato dalla vena hard-rock della band madre, l’e -cantante dei Mayfield Four (qui impegnato con tutti gli strumenti tranne la batteria) si mette letteralmente a nudo, presentandoci un album rock-blues totalmente acustico, incentrato a livello lirico sulla tragedia che lo ha colpito quando aveva solo 4 anni (aggravata dal rifiuto delle cure mediche per motivi religiosi). Musicalmente parlando, come detto, siamo lontani dall’elettricità cui siamo abituati, ma la calda timbrica di Myles e la sua chitarra acustica rappresentano gli ideali compagni di un viaggio che, una volta entrati in sintonia con queesta nuova dimensione, si preannuncia ricco di sorprese. Se la titletrack ci accoglie con un rock-blues più spensierato, “The Great Beyond” rappresenta un primo apice di patos, in un’ideale via di mezzo tra l’epicità di “Blackbird” e la sofferenza speranzosa degli ultimi Pain Of Salvation. Proseguendo nell’ascolto, troviamo pezzi blues più ritmati (“Blind Faith”, “Devil On The Wall”, “Mother”) alternati a ballate che non avrebbero sfigurato nel songbook degli Alter Bridge (“Ghost Of Shangri La”, “Turning Stones”, “Songbird”). Il meglio tuttavia, come lasciato intuire dalla seconda traccia, si trova negli episodi più elaborati, e da questo punto di vista l’accoppiata “Nothing But The Name” / “Love Can Only Heal” rappresenta l’apice di un disco non certo avaro di emozioni, grazie ad una prova vocale di rara intensità e un assolo finale toccante pur nella sua semplicità. Come nella band madre le due anime si complementano, così anche i rispettivi progetti solisti viaggiano agli antipodi musicali, ma anche se la direzione di Mr. Kennedy è la più lontana dal punto di partenza non per questo è meno interessante, anzi.