8.0
- Band: MYRKUR
- Durata: 00:46:53
- Disponibile dal: 20/03/2020
- Etichetta:
- Relapse Records
- Distributore: Audioglobe
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Dagli incubi di “Mareridt”, alla riscoperta del legame con la natura, le proprie origini, i significati più reconditi e spirituali connessi al substrato culturale degli avi. Suona familiare, vero? Non si contano gli artisti, nel Nord Europa ma non solo, che vanno a indagare nel passato, per riesumare concetti, idee, pensieri, musiche di un tempo lontano centinaia di anni. Una riflessione che può portare ad avventure musicali di grande complessità e suggestione, che uniscono un recupero filologico di antichi suoni, a una rielaborazione in chiave più attuale degli stessi. Ci stiamo riferendo a Warduna ed Heilung, entrati nell’immaginario collettivo per come sanno trasportarci in un mondo magico, mitologico, lontanissimo dalla realtà dei giorni nostri. Operazione che va a compiere anche Amalie Bruun col suo progetto Myrkur, toccante in questa nuova reinvenzione, distante dalle contrapposizioni di angeli e demoni delle pubblicazioni precedenti. Intanto, questo non è un album metal, non è nemmeno un concentrato di oscuri umori cantautorali alla Chelsea Wolfe, altro termine di paragone buono per descrivere Myrkur, in particolare per “Mareridt”. Nessuna tentazione di cantautorato crepuscolare, di seduzioni femminee in salsa dark, si palesano in “Folkesange”, che invece, proprio come da titolo, rappresenta una collezione di canti folk attingente al tessuto culturale scandinavo, collocabile grosso modo in epoca medievale per datazione dei riferimenti. Da qui arriva la strumentazione utilizzata, che proprio come per Warduna ed Heilung si avvale di strumenti acustici a corda come lira, nyckelharpa, mandola, tagelharpa.
Avvalendosi della collaborazione del produttore Christopher Juul (membro degli Heilung, per l’appunto) la Bruun si dimostra musicista finissima, di ben altra caratura di quella assai più incerta, un po’ ruffiana e indecisa ascoltata in “Myrkur” e “M”. Crediamo che a dare una prima indicazione del valore di dischi simili sia l’autenticità promanata dai singoli pezzi: le operazioni di maniera, calcolate, si notano, la loro superficialità si svela in fretta, in pochi ascolti si gratta via facilmente la patina indorata, come un gratta e vinci, e si scopre la scarsezza del materiale sottostante. In “Folkesange” accade l’esatto contrario: all’inizio l’album potrebbe apparire flebile, di un minimalismo sonnacchioso assai uniforme, complice una produzione nient’affatto roboante e l’attenta misura con cui ogni strumento partecipa al disegno generale. Ci sono però, subito, indizi chiari che si debba andare oltre e immergersi senza tentennamenti nel flusso sonoro. E arriva presto la meraviglia, viene naturale dissipare la distrazione e prestare attenzione massima ai tanti piccoli dettagli racchiusi nelle tracce.
Ci sono canzoni dal favellare folk ritmato (“Fager som en Ros”), altre ariose e tonificanti come un’escursione in alta montagna (l’idillica opener “Ella”, col suo video panoramico a farle da eccellente compendio), altre ancora dolcemente intime e cullanti (il violino amorevole di “Leaves of Yggdrasil”). È una delicatezza poliedrica e fantasiosa a tenere assieme i vari filoni in cui ama svagare l’opera, non ci sono temi ricorrenti e somiglianze clamorose fra i singoli pezzi: la polistrumentista nordica affianca materiale scritto interamente da lei, a rielaborazioni di canti tradizionali (su tutte “Ramund”, composizione danese del 1600 già ripresa dai Tyr in “Ramund Hin Nunge”). La voce della Bruun risplende di una sicurezza interpretativa eccezionale, padroneggia tecniche di canto diversissime, proprie di altre ere, tipo il richiamo per animali denominato Kulning, ampliando ulteriormente un campionario di voci che già sapevamo essere enciclopedico (basti sentire il vibrante, acuto urlo, che apre “Tor i Helheim”).
Myrkur disegna inoltre tappeti di pianoforte superbi pur usando pochissime note, che interagiscono quasi con pudore con gli strumenti a corda. “Folkesange” è album estremamente pacato, suggestiona apparentemente con poco, anche le percussioni, utilizzate con veemenza molto contenuta, infondono incanto e non osano elevarsi a elemento trainante, foriero di facile intrattenimento. La metrica vocale si destreggia fra lenta narrazione aedica, saltellii e guizzi, filastrocche inebrianti (l’uggioso duetto col violino di “Gammelkäring”, la sorridente “House Carpenter”), donando coloriture sempre brillanti e nient’affatto uniformi alle canzoni. Il commuovente, soffice, pianoforte di “Vinter” e la sua coralità quasi natalizia, sanno tanto di speranza, di un ponte fra passato celestiale e l’auspicio per un futuro meno inquietante dell’oggi. Un necessario spiraglio di luce, un album di disarmante bellezza, questo “Folkesange”.