7.5
- Band: MYRKUR
- Durata: 00:38:19
- Disponibile dal: 15/09/2017
- Etichetta:
- Relapse Records
- Distributore: Audioglobe
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Benedetti incubi. Quelli che avrebbero attanagliato la povera Myrkur al ritorno dal suo primo tour, a supporto del celebrato “M”. Burrascosi tormenti notturni dai quali avrebbe provato prima a rimanere lontano, a fuggirne. Accortasi di non poterlo fare, vi si sarebbe abbandonata, ricavandone la simbologia, i messaggi, l’ispirazione che l’hanno portata a plasmare il nuovo “Mareridt”. Un’immersione estatica nel folclore nordico, nella sua mitologia, nel fiabesco. Un disco che svela finalmente, in tutta la pienezza di un intelletto vivace, avventuroso e originale nelle interpretazioni del mondo e dei suoi segreti, il reale talento della giovane songwriter di origine danese. “Myrkur” e “M” non uscivano dall’equivoco di fondo di accostare, forzatamente, la fresca ebbrezza del cantato a cappella e il crudo black metal dei primi anni ’90. Stili che finivano per viaggiare ognuno sul proprio binario, fondendosi poco o malamente, così che soprattutto in “M” la musica scorreva a spezzoni slegati, non si consolidava in una sostanza sonora avente vita e peculiarità autonome. Incertezze fugate in “Mareridt”, dove il black metal propriamente detto sopravvive solamente in “Måneblôt”, che da sola spazza via la discografia precedente a firma Myrkur: il tocco fatato delle clean vocals danza fra le asprezze della scarica old-school in apertura, presto sfumante in un’amorevole ode panica, preda di violino, percussioni, ventate di passionalità alcestiana e cascadica. Esaltante la progressione conclusiva, quando la voce si scatena in una strofa ripetuta ossessivamente, a pieni polmoni. In “The Serpent” iniziamo a capire meglio la portata del lavoro e il salto di qualità compiuto: un doom stregonesco, che si abbevera alla fonte magica di Jex Thoth, la voce trasfigurata che si accorda a un chitarrismo increspato e ottenebrante. Il ciclico moto rallentato lambisce lo sludge, diluendosi giusto nella coda pianistica. Pianoforte dal quale si propagano le calde tenebre di “Crown”, una buia sinfonia catatonica che consacra le abilità cantautorali di Myrkur e la sua quasi illimitata elasticità vocale. Note basse alla Nick Cave, gorgheggi angelici, nenie ecclesiastiche, nulla le appare precluso. E quando serve digrignare i denti, i risultati sono altrettanto soddisfacenti, come accade in alcuni brevi intermezzi di “Elleskudt”. Il piano si aggroviglia in un saldo abbraccio a un riffing tormentato che tocca le corde del miglior avant-garde norvegese, la singer si comporta da attrice, mettendo in scena una mini-opera mischiante gothic, musica classica, folk nella sua accezione più preziosa. Le rarefazioni fra ambient, sperimentazione, soundtrack pulsano lente e inesorabilmente incisive nella title track e nella medievaleggiante “De Tre Piker”, anche in questo caso assumendo connotazioni ben più brillanti delle prove passate. In “Funeral” ecco comparire Chelsea Wolfe, artista che molto deve avere influenzato Myrkur. Il brano incorpora un delicato tocco dark, si snoda maestoso e pesante, acceso di una luce spettrale e spaventosa come solo due donne dotate di una tale vocalità mutevole e paradossale potevano essere in grado di concepire. Crudeltà e fuga nell’onirico non si danno tregua in “Ulvinde”, l’elettricità appare e scompare per assecondare turbe emotive, attimi di pace intervallati di pazza inquietudine e l’impressione che nell’intimo di Myrkur vadano in scena come in un film vicende stranissime, appena decifrabili nei mutevoli sussulti della musica. Un leggero calo nel comunque valido astrattismo del trittico conclusivo (“Gladiatrix”-“ Kætteren”-“ Børnehjem”) poco pregiudica una valutazione entusiasta, per chi scrive assolutamente imprevista, considerate le perplessità lasciate da “M”. Assieme a “Hiss Spun” di Chelsea Wolfe, l’album destinato a togliervi il sonno per l’intero autunno.