8.0
- Band: NECROPHOBIC
- Durata: 00:47:57
- Disponibile dal: 09/10/2020
- Etichetta:
- Century Media Records
- Distributore: Sony
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Si dice che l’età rassereni e assopisca gli animi, ma nel caso di alcuni veterani (in particolar modo scandinavi) questa affermazione finisce presto per essere smentita e inghiottita da una nube incandescente di cenere e lapilli. Una premessa dovuta quando le vecchie conoscenze della situazione rispondono al nome di Necrophobic, prime mover della scena black/death svedese dei Nineties e – ormai da qualche anno – protagonisti di una seconda giovinezza che ha quasi colpito alla sprovvista pubblico e addetti ai lavori, coincidente con l’insperato ritorno all’ovile di una figura chiave come quella del chitarrista Sebastian Ramstedt.
Oggi, già lasciatosi alle spalle il fortunatissimo “Mark of the Necrogram” (2018), il quintetto di Stoccolma riemerge dalle tenebre per consegnarci un nuovo attestato dell’entusiasmo e della fame artistica che ne sta indirizzando i passi in questo momento, rispettando scrupolosamente i propri trademark – dalla commistione di elementi thrash e NWOBHM alla facoltà innata di concepire ‘hit’ sataniche a dir poco accattivanti – ma avendo anche il coraggio di spingersi più a fondo in termini di ricerca atmosferica e complessità delle trame. Il salto definitivo nell’abisso infernale che ne ha sempre plasmato l’immaginario, compiuto tenendo a mente quanto fatto finora per poi accentuarne e svilupparne alcune caratteristiche, il tutto sul filo di una tensione luciferina che rende obsoleto e ridicolo qualsivoglia richiamo alla pensione. I Necrophobic 2020 sono artisti navigati che si approcciano alla musica con la rabbia e la voglia di superarsi di un gruppo ben più giovane, e le undici tracce di “Dawn of the Damned”, prodotte ancora una volta dall’ex Fredrik Folkare (Unleashed, Firespawn), ne esemplificano al meglio il concetto imbastendo un viaggio denso, frastagliato e dalle tinte estremamente cupe; una cinquantina di minuti in cui non c’è spazio per i refrain martellanti di cavalli di battaglia come “Revelation 666” o “Tsar Bomba”, e dove arie mefitiche più insalubri del solito vengono fatte confluire in episodi avvolgenti e dal costrutto non proprio lineare, almeno per gli standard dei Nostri. Un taglio simil-progressivo che dai singoli “Mirror Black” e “The Infernal Depths of Eternity” si riflette grossomodo sull’intera tracklist, la quale porta in trionfo l’animo prettamente black metal della band senza appunto scadere in un mero assalto frontale (eccezion fatta per la conclusiva “Devil’s Spawn Attack”, omaggio alla schiettezza degli anni Ottanta in compagnia di Schmier dei Destruction).
Si respira indubbiamente un clima più solenne e drammatico, i brani non svelano da subito le loro potenzialità e anche le melodie suonano più sibilline e distanti rispetto al passato. In generale, l’impressione è quella di stringere fra le mani l’opera più ambiziosa e stratificata del gruppo, la quale ha indubbio merito di crescere nel tempo e regalare, ascolto dopo ascolto, nuovi spunti di riflessione. Un comeback che, se non può ovviamente competere con i mitici esordi su Black Mark Production, merita la stessa attenzione di un “Hrimthursum” o del suddetto “Mark…”, fra arabeschi di fuoco e ombre demoniache proiettate sulle pareti di casa.