8.0
- Band: NECROPHOBIC
- Durata: 00:48:14
- Disponibile dal: 23/02/2018
- Etichetta:
- Century Media Records
- Distributore: Sony
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Per chi si è sempre identificato nella grande tradizione estrema degli anni Novanta, quello dei Necrophobic è senza dubbio un nome importante. Tra gli esponenti di spicco della famigerata scena black-death svedese, insieme a Dissection, Naglfar, Unanimated e compagnia diabolica, i Nostri hanno sempre fatto della coerenza stilistica e della caparbietà i loro punti di forza, senza mai piegarsi e trovando puntualmente il modo di risollevare la testa dopo le difficoltà accorse in carriera. Non stupisce quindi ritrovarli oggi, a quasi un lustro di distanza dal controverso “Womb of Lilithu”, nuovamente affamati e pronti a recuperare il terreno perduto, avvalendosi fra le altre cose del supporto di una label importante come la Century Media. Se il suddetto album del 2013 era stato il frutto di una line-up poco efficace e convincente, con Fredrik Folkare degli Unleashed investito del ruolo di songwriter principale, questo “Mark of the Necrogram” rimette i Necrophobic nelle condizioni di imporsi sulla concorrenza e lasciare effettivamente il segno, complice il ritorno dei chitarristi Sebastian Ramstedt e Johan Bergebäck (autori dei fortunati “Hrimthursum” e “Death to All”) e del frontman originale Anders Strokirk. Come anticipato nel track-by-track di qualche settimana fa, l’aria respirabile in questi cinquanta minuti di musica è la stessa delle migliori opere della band di Stoccolma; un mix di esalazioni velenose e sulfuree che sembra evocare immediatamente l’Inferno, sfumando i confini tra ciò che è black, death e puro e semplice heavy metal in una nuvola dalle tonalità rossastre. Nove brani (più una breve outro strumentale) giocati dall’inizio alla fine su un guitar work tagliente e dinamico, rifinito con cura certosina, che miscela brutalità e melodia in parti pressoché uguali e che non smette mai di esaltare il gusto della ritrovata coppia d’asce, attenta protettrice del suono della creatura del batterista Joakim Sterner. Ce n’è per tutti i gusti, dagli intrecci luciferini dell’opener/titletrack all’incedere crepuscolare del midtempo “Requiem for a Dying Sun”, passando per il refrain bombastico di “Tsar Bomba” e i saliscendi ritmici di “Pesta”, per un risultato finale in grado di riassumere – esaltandone ogni aspetto – tre decadi di carriera. A conti fatti, è impresa ardua trovare punti deboli in un simile concentrato di ingegno e passionalità: queste sono le prove che incoronano la tradizione della vecchia guardia e ne legittimano lo status di leggenda. Non resta che premere il tasto ‘play’ del lettore e lasciarsi trasportare giù, sempre più giù, dove il fuoco e le tenebre regnano sovrani.