7.5
- Band: NEPTUNIAN MAXIMALISM
- Durata: 02:02:51
- Disponibile dal: 26/06/2020
- Etichetta:
- I Voidhanger Records
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Chiamatelo jazz tribale, improvvisazione cosmica, psichedelia drogata di drone, sperimentazione libera e svagata, se vogliamo stare larghi e non azzardare nulla; fatto sta che “Éons” del collettivo belga Neptunian Maximalism rientra in quegli ascolti difficili da inquadrare, per via di una ricerca sonora capace di superare i confini di ciò che viene considerato anche solo vagamente ‘normale’. Frutto innanzitutto delle idee del suo fondatore Guillaume Cazalet, che ne ha avviato i lavori nel 2018, Neptunian Maximalism ha ampliato i suoi orizzonti in contemporanea all’allargamento della line-up, divenuta oggi, per definizione della band stessa, una ‘drone orchestra’. Seguito di un primo album uscito già nel 2018, “Conference Of The Stars”, questo secondo manifesto identitario si presenta suddiviso in tre parti, per una durata complessiva di oltre due ore, nel quale si assistono a canovacci sonori riuniti sotto l’unico denominatore della spinta avanguardista e, al contempo, del recupero di una musicalità primitiva e ruvida.
Nella prima sezione “To The Earth (Aker Hu Benben)” il suono si scompone e si dirama partendo da istanze jazz, costruite attorno a motivi facilmente riconducibili a tale genere nelle sue versioni osé, pur riconoscendo in prima battuta al collettivo di non andare a cercare la stranezza a tutti i costi. Piuttosto, il fumoso peregrinare del sax, incastonato nella percussività primordiale e meticolosa delle due batterie, va a disegnare scenari misteriosi e inquieti non privi di agganci armonici, non così difficoltosi da comprendere, almeno se si è abituati a confrontarsi con le impervie elucubrazioni di certo extreme metal e drone odierno. Se i primi indizi sono afferrabili senza troppi sforzi, la soluzione del mistero diventa presto non così semplice, perché ci si va a tuffare in intrecci strumentali dalla struttura fluida e indefinita, flussi di coscienza nei quali vampate di suono si accavallano e si scontrano, ingenerando un senso di meraviglia e stupore. Arie orientali, misticismo, devianza, dilatazioni ritmiche guidate comunque dall’istinto per tempi coinvolgenti e dai battiti accelerati, conducono in un mondo esotico, magico, dove il reiterarsi della musica, la prolissità ottundente, divengono armi affilatissime per spaesare l’ascoltatore. Siamo nel campo da gioco di Swans e Aluk Todolo, con questi ultimi e la loro propensione naturale a partiture dure e sfiancanti, mutevoli e instabili, a farsi vive con ardore.
Impressione resa ancor più vivida nei deliri del secondo disco, “To The Moon (Heka Khaibit Sekhem)”, oltremodo ondivago e sadicamente nauseante, in nenie che sanno di danze di dervisci e si portano a un’affilatezza pronunciata e ad andamenti sussultori inquietanti, pur se rivestiti a tratti delle cadenze di una musica popolare stravolta da sostanze psicotrope. La matassa di strumenti, con sitar e synth ottimi protagonisti della vicenda, con l’aggiungersi e il pesare dei minuti su orecchie e coscienza assume connotazioni elefantiache; del resto sono proprio i pachidermi i protagonisti del concept sottostante a “Éons”, album che diviene colossale e inespugnabile man mano che se ne va (vagamente) a comprendere il disegno complessivo. La densità dell’atmosfera, la dolciastra fumosità di molti passaggi, fa tornare alla mente anche qualcosa degli Zu, anche se in questo caso gli orizzonti si dilatano e si sporgono verso il grande, indefinito, mondo delle colonne sonore e un drone immaginifico. Poche le voci, utilizzate quale contorno, arrangiamento episodico in alcuni momenti, fatto di invocazioni declamatorie oppure urla belluine.
Il capitolo conclusivo, “To The Sun (Ânkh Maât Sia)”, si schiude invece a infinite modulazioni di frequenza, il fitto comparto sonoro si assottiglia, creando quella che i suoi autori hanno definito una ‘solar drone opera’. È forse la parte più fumosa del lavoro, quella maggiormente incline a una certa autoindulgenza e fin troppo concettuale. Chitarre baritone, sax, effettistica di sapore cinematografico lavorano in modo più minimale, non arrivando a quei climax di chiassosa veemenza disordinata sentiti in altri punti del disco. Non di vero scadimento qualitativo parliamo, quanto di un mancato senso del limite. Un peccato forse ineludibile, giunti a questo punto. Pur con qualche perplessità legata, in fondo, più alla lungaggine di alcune sezioni che non alla validità dei contenuti, “Éons” va dritto tra gli ascolti da non mancare se si amano i viaggi solitari in mondi sonori bizzarri e inconcepibili per le masse. Data la natura del progetto, immaginiamo che l’habitat migliore per godere di tali concezioni sia la dimensione live, purtroppo al momento ancora negataci…