NERO DI MARTE – Derivae

Pubblicato il 21/10/2014 da
voto
8.0
  • Band: NERO DI MARTE
  • Durata: 00:56:54
  • Disponibile dal: 27/10/2014
  • Etichetta:
  • Prosthetic Records
  • Distributore: Audioglobe

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Li stavate aspettando. Lo sappiamo. I peana pressoché unanimi per l’esordio omonimo rappresentano un fenomeno riscontrato ben poche volte nella storia del metal italiano, e quindi supponiamo siate in molti a fremere per il nuovo disco dei Nero Di Marte. E’ passato un anno e mezzo soltanto, e il quartetto bolognese è già pronto a dare un seguito all’esordio, opera di post-death metal eclettica e coinvolgente, che aveva come unico torto quello di portare addosso stimmate troppo vistose dei gruppi ispiratori. Qui ritorniamo al punto di partenza. Questo disco lo stavate attendendo in tanti ma, esattamente, che cosa gli chiedevate? Di rimanere più o meno nel solco del predecessore, con qualche aggiustata qua e là a marcare la differenza, oppure volevate un salto evolutivo forte, di quelli che spiazzano e possono portare a reazioni anche di rifiuto e di nausea di fronte al nuovo corso? Siete sicuri di saperlo? I Nero Di Marte di questi dubbi non sembrano averne avuti e hanno probabilmente seguito la strada più logica, quella suggerita dall’inerzia presa col predecessore. E’ accaduto allora che del death metal, presente in misura abbondante in “Nero Di Marte” accanto, e insieme, alle dinamiche e stratificazioni tipicamente post-metal e progressive, i Nostri si siano disfati quasi in toto, facendolo appena affiorare nella pesantezza di alcuni frammenti. Ci si è spinti al largo, il più lontano possibile dalle rotte tracciate da gruppi coevi, andando davvero alla deriva, come il titolo suggerisce. “Derivae”, infatti, prende le distanze in modo piuttosto marcato perfino da quello che i Nero Di Marte hanno rappresentato fino ad oggi e promette di diventare un cerebrale oggetto di piacere per i mesi autunnali e invernali. Il secondo album dei combo bolognese è un frutto dal sapore strano, non pienamente decifrabile; i riferimenti del primo disco ci sono ancora, ma in questo caso li vediamo attraverso una lunga fila di specchi deformanti e non possono, da soli, spiegare il contenuto di queste lunghe e composite tracce. La componente atmosferica ha guadagnato spropositatamente terreno, diluendo l’impatto e la frenesia estremista del primo album, ed è al contempo arrivata a livelli finissimi l’idea di progressive del gruppo, intesa proprio come voglia di esplorare l’ignoto e di farsi stuzzicare da qualsiasi stimolazione sensoriale, per vedere cosa se ne possa cavare fuori. I quattro musicisti, già conosciuti per una padronanza degli strumenti di primissimo livello, sono riusciti a darsi traguardi ancora più impervi da raggiungere, aggiungendo ulteriore spessore e originalità alle proprie prestazioni individuali. Cominciando dagli spaventosi pattern di Marco Bolognini, che alla pari di Jaime Saint Merat negli Ulcerate, è il capitano della nave della formazione, la stella polare che segna il tragitto da seguire. Pochi sprazzi di foga distruttiva per lui, e molto lavoro ai fianchi, tramite un uso dei tamburi che alterna tappeti di sottofondo ai limiti del tribale, tempi dispari di gran gusto e poca invadenza – una sorta di Mark Zonder dell’estremo, in questi casi – e affondi decisi in labirinti ritmici non troppo lontani da quelli di un Tommy Haake. Non ci sono stacchi di complessità assurda né concessioni alla linearità, ma una tensione costante e una sequenziale destrutturazione e ricomposizione, professata con la calma del meccanico che smonta un motore un pezzo alla volta, e poi lo rimonta in maniera completamente diversa, ma sempre ordinata e funzionale. Le chitarre sbrogliano nuovamente una matassa di dissonanze posate una sull’altra a formare una coperta di suoni poderosissima, una melassa nerastra malleabile e in grado di assumere forme diverse, definite fino a un certo punto e che non si è quasi mai capaci di descrivere compiutamente e di riconoscere con esattezza. Le tracce alternano vuoti e pieni, intimismo e vigore: possono partire lentamente, per poi diventare uno tsunami urlante, dispensando sciabordii nell’oblio e far viaggiare la mente senza una meta; oppure possono aggredire subito con colossali ondate di energia cibernetica, e poi planare su toni da soundtrack, mettendo in luce le doti interpretative della voce di Sean Worrell ed effetti dal sapore fantascientifico, in una chiave sinistra e apocalittica. Le salite dai momenti più lievi a quelli più corposi ci riportano ad alcune strutture di “Oceanic” degli Isis, anche se qui il suono è molto diverso, mentre a livello di atmosfere potremmo pensare ai Mastodon epoca-“Leviathan”, con una dose di cupezza e indecifrabilità superiore. Indeboliti, ma non sconnessi, i collegamenti con gli Ulcerate e i Gojira, rimane in molti passaggi una solennità cara ai Neurosis, reinterpretata anche questa secondo un’ottica caratteristica e non derivativa. Le frequenti aperture al confine con l’ambient e il doom vanno addirittura a ripescare sensazioni sepolte dal tempo, provenienti da quel gioiello mai abbastanza celebrato che è “Hybreed” dei Red Harvest; accade soprattutto nelle dilatazioni di “Those Who Leave”, traccia conclusiva proiettata ancora più avanti del resto della tracklist, grazie a spruzzate di doom sperimentale in misura abbondante e ben calibrata. Di fronte a cotanta opulenza strumentale perdoniamo qualche imperfezione nel cantato di Worrell. Tutto bene, paradossalmente, quando egli si destreggia con vocalizzi anomali e un po’ teatrali, quindi sulle cose “difficili”; meno sui puliti e quando la band accelera e si lascia andare a scampoli di rude violenza. In questo caso servirebbe un’ulteriore iniezione di aggressività da parte del singer, che pare non essere in grado di dare un adeguato supporto, per scelta o limiti propri. Trattandosi comunque di linee vocali molto sentite e peculiari, fatichiamo a trovare un’alternativa credibile, perché si rischierebbe di snaturare quello che ormai è un trademark del gruppo. Detto infine di una produzione spettacolare, che non lascia indietro nessuno e gonfia a dismisura la forza evocativa della band, non possiamo che lasciarvi al godimento dell’opera. Vi terrà compagnia a lungo.

TRACKLIST

  1. L’Eclisse
  2. Clouded Allure
  3. Pulsar
  4. Dite
  5. Simulacra
  6. Il Diluvio
  7. Those Who Leave
4 commenti
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