6.5
- Band: NEUROSIS
- Durata: 00:40:51
- Disponibile dal: 23/09/2016
- Etichetta:
- Neurot Recordings
- Distributore: Goodfellas
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Lo scorso Marzo i Neurosis hanno tenuto tre concerti sold out in tre serate di fila alla Regency Ballroom di San Francisco, loro città natale, per festeggiare i trent’anni di onoratissimo servizio. Band come At The Gates, Black Dahlia Murder, Cannibal Corpse o perfino Machine Head non riuscirebbero neanche a fare il sold out in un locale simile per una serata soltanto, figuriamoci tre di fila. Basta questo per dare l’idea della portata leggendaria di questa band, ormai assunta a bastione gargantuesco, indiscutibile e inscalfibile dell’underground e oltre, che è stata capace di mettere d’accordo pressoché tutti, dai fan dello stoner metal più scanzonato fino ai più beceri e morbosi amanti del noise, del doom, e dell’industrial. Oggi addirittura viviamo in un mondo in cui la stragrande maggioranza dei giovani che si avvicinano alla musica heavy per la prima volta lo fanno usando l’influenza dei Neurosis come porta d’ingresso – suonando in band ‘post-metal’, un genere che – grazie anche a band celebratrici dei Neurosis come Isis, Rosetta e Cult of Luna – negli ultimi anni ha letteralmente saturato il metal indipendente e non fino quasi al totale soffocamento e collasso, creando una vera e propria moda sparsasi in tutto il mondo a macchia d’olio a partire dai primi anni Duemila. Insomma non siamo di fronte solo ad una band leggendaria, ma ad un vero fenomeno, ad una febbre, ad una sorta di miasma che sembra aver letteralmente infettato tutti in lungo ed in largo. Difficile in fin dei conti immaginare una parabola più impensabile e affascinante della loro. Inizialmente partiti come band hardcore punk alla Crucifix o Void sul finire degli anni Ottanta, grazie ad un percorso cangiante ma lineare, fomentato da visioni psichedeliche e delirii di violenza urbana, la band è finita per mutare in una bestia a più teste che ha iniziato a brandire l’influenza di band come Swans, Amebix, Einsturzende Neubatuen, Saint Vitus e Celtic Frost come arma contundente dal potenziale distruttivo pressoché infinito. Da qui sono nati dischi tremendi come l’apice assoluto (secondo il sottoscritto per lo meno) “Souls At Zero”, passando poi per “Enemy of The Sun”, “Through Silver In Blood”, e “Times of Grace”. Lo spartiacque è arrivato proprio dopo “Times of Grace”, per via di un sodalizio nato con quel disco che la band ha stretto con il noto produttore dei Nirvana Steve Albini, interrompendo la fruttuosa collaborazione che era durata sino ad allora con il produttore prettamente doom Billy Anderson e che aveva partorito album dal sound devastante. Da lì per la band è iniziato un lento recedere nei meandri dell’introspettività e della spiritualità più sanguigna, grazie anche all’interesse crescente nutrito per i due leader Scott Kelly e Steve Von Till nella musica folk e roots, un interesse che ha portato alla creazione di album come “A Sun That Never Sets” e dei primi solo album acustici. I due hanno anche abbandonato la Bay Area rifugiandosi un Idaho l’uno e in Oregon l’altro per sfuggire il più possibile dal contatto umano – quella simbiosi perversa che aveva provocato in loro quella famosa rabbia cieca e la tensione che trasudavano dai loro lavori di allora. Dove siamo dunque oggi? Oggi siamo oggettivamente anni luce da tali tormenti audio-visivi. La band si vede qualche volta durante l’anno per scrivere e comporre pezzi come fosse un compito assegnato, pezzi che poi Steve Albini assembla in studio. Siamo agli antipodi da quell’affiatamento delirante e morboso che caratterizzava la band fino a dieci anni fa e siamo invece nel campo del manierismo più subdolo e della percettibile perdita del contatto con se stessi e con la priora animalesca e primordiale natura. “Fires Within Fires” ricalca il solco del precedente e altrettanto fiacco “Honor Found In Decay” mostrandoci una band ‘senile’ ma nel senso meno lusinghiero del termine (a differenza di band come Killing Joke e Swans per esempio la cui senilità ha solo rappresentato ulteriore maturazione, evoluzione e antagonismo), che tenta di fare un disco heavy ma che per via di un evidente carenza di reale convincimento commette vari errori (prevalentemente di natura tecnica) di una banalità sorprendente. Impensabile per esempio fare un disco basato sui ‘riff’ come questo e scordarsi il pedale della distorsione a casa. O dimenticarsi di alzare il gain sugli ampli. E Steve Albini, un produttore 100% indie rock, non è la persona adatta a correggere queste sviste. Il risultato è un disco che mostra il solito indiscutibile carattere e la gran dignità di questa band, che però in queste vesti è anche tremendamente controllata, intimidita, incapace di penetrare con la propria furia sonica nella psiche di un ascoltatore che sta li sbavando per un’altra dose di allucinatoria violenza che non arriva mai. La prima impressione ad emergere da “Fires Within Fires” dunque è quella di una band che non crede più realmente nella propria anima heavy ma che ha voluto rifiutare di ascoltare se stessa, creando invece qualcosa con lo scopo di accontentare le aspettative e la bramosia dei fan che han costruito la loro venerazione per la band su lavori come “Through Silver In Blood”, e “Times of Grace”, album irreplicabili per i Nostri ormai a questo punto delle loro vite. Come sempre da dieci anni a questa parte sono le tastiere di Noah Landis a fare maggiormente il buono e il cattivo tempo nell’impianto sonoro neurosisiano, e a dipingere quegli arabeschi sonori di ultraterrena potenza, mentre le chitarre di Von Till e Kelly si affidano a riff arcigni e quadrati di ormai pura estrazione stoner rock, con un low end flaccido, sfilacciato e saturo di fuzz che schiuma infinitamente senza mai coagularsi in qualle schegge taglienti che la band sparava un tempo e che erano capaci di lacerare carne e psiche dell’ascoltatore come un coltello rovente nel burro. Con il solito Jason Roeder dietro le pelli che non ha mai brillato di chissà quale genialità se non dell’intelligente essenzialità e potenza necessarie per ricreare con maestria la ripetitività soffocante che ha sempre caratterizzato la band, e che ora per via della volatile viscosità dei riff brilla anche meno, e le voci raspe e tossenti di Von Till e Kelly che lungi dal furore punk di un tempo ora fanno trapelare solo senilità (quando l’età avanza spesso è il caso di fare qualche piccolo aggiustamento), il quadro che si materializza è quello di una band che sta scrivendo i ‘peggiori’ lavori della sua carriera e che rappresentano al cospetto dei dischi dell’era Relapse e Alternative Tentacles un confronto davvero impietoso. Grazie all’immensa reputazione costruita dai Neurosis in trent’anni di incendiaria e irraggiungibile carriera, ora l’effetto che si potrebbe andare a creare è quello del famoso re nudo, poiché tutte le carte sono ancora una volta al loro posto in tavola, ma i conti a fine ascolto non tornano. Manca qualcosa, ma quello che manca è un qualcosa di ancora molto immateriale e latente che si cela dietro ad una ‘falsa’ pesantezza priva di reale convincimento e che si nasconde dietro ad un dito. Una delle grandi qualità di “Fires Within Fires” la troviamo paradossalmente nella brevità del lavoro (aspetto questo che vendendo a mancare ha invece compromesso l’altrettanto flaccido “Honor Found In Decay”), forse il più breve dai tempi di “Enemy of The Sun” – una caratteristica che da un lato spinge l’ascoltatore ben volentieri a ripetere l’ascolto e che dà al lavoro un gradevole senso di urgenza ed essenzialità, ma che dall’altro rivela anche come sarebbe difficile ascoltare tutto d’un fiato un lavoro simile se questo fosse un minuto più lungo. L’ultima nota prettamente ‘tecnica’ sul disco è altrettanto positiva, in quanto “Fires Within Fires” contiene – nel finale di “A Shadow Memory” – il più azzeccato e devastante riff scritto dai Neurosis sin dai tempi di “A Sun That Never Sets” quando la band creò quel mostro di sublime furia chitarristica chiamata “Stones from the Sky”. Davvero ancora una volta un momento (purtroppo solo un momento) che ci mostra con innegabile fermezza, e pur nel pantano di una produzione affatto all’altezza, come a questa band basti un semplice guizzo, un istante, un riff, per riposizionarsi sempre e comunque al disopra della massa. Peccato. Il sottoscritto personalmente non è mai stato un fanboy della band, ma un fanboy semmai dei veri capolavori della band, per questo il fattore emozionale ha giocato un ruolo secondario e del tutto irrilevante nella stesura di queste righe, un approccio invece più volto al ‘diciamo le cose come sono realmente’. Vogliamo però spezzare una lancia fondamentale a favore dei Nostri. Non sono tanto una band in declino o in affanno o carente di ispirazione, quanto piuttosto persa e ostaggio di Albini e di scelte tecniche discutibili. Tutto quello che avete letto qui dentro è più che altro una critica amarissima a Steve Albini (e non alla band), un produttore indie rock da sempre secondo il sottoscritto inadatto a trattare suoni simili e che sta lentamente distruggendo il suono di questa band, poiché completamente incapace di effettuare quelle necessarie correzioni nel sound dei Neurosis che sono essenziali a rimpiazzare la evaporante rabbia giovanile dei Nostri che un tempo si trasmetteva naturalmente su nastro, e che ora sta – anche comprensibilmente – scemando e necessitando di qualche accorgimento tecnico per rinvigorire almeno a livello sonoro la fiamma dei californiani. E Albini non è assolutamente in grado di offrire loro questo prezioso servizio, vedasi come esempio il confronto impietoso che esiste tra il sound dei loro live show e dei loro dischi odierni. Qualora i Neurosis decidessero in futuro di affidarsi per la prima volta in quasi vent’anni ad altri per registrare i loro nuovi album, il sottoscritto non potrebbe che essere assolutamente sopraffatto dalla gioia di sentire una notizia simile.