7.0
- Band: NEUROSIS
- Durata: 00:60:47
- Disponibile dal:
- Etichetta:
- Neurot Recordings
- Distributore: Goodfellas
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E fu così che si scoprì che anche i Neurosis sono umani, che nel loro purissimo DNA musicale era previsto anche un album poco ispirato, e che, come accaduto a tanti comuni mortali su queste pagine, anche loro stavolta a malapena sono riusciti a strappare un “misero” sette dalle incerte mani di chi scrive, ovvero da un fan vero, cosa che rende il sette in questione ancora più amaro. Orecchie disinteressate, imparziali, e implacabili chissà per quale verdetto valutativo avrebbero optato. Forse non per una valutazione così accomodante di fronte ad un lavoro certamente fiero e raffinato, ma anche assopito, a volte tiepido, e ancor più spesso innocuo, e forse dunque, episodio più “debole” della loro carriera post-“Souls At Zero”. La prima riflessione che va fatta sul ritorno discografico dei Neurosis è che, ascoltando “Honor Found In Decay”, appare evidente come un disco come “Given To The Rising” sia stato un formidabile colpo di reni da parte della leggendaria compagine post-metal di Oakland, piuttosto che un vero ritorno alla forma dopo l’opacità di un album valido ma incapace di rivaleggiare il catalogo passato della band come fu “The Eye Of Every Storm”. “Honor Found In Decay” infatti ritrascina la band sotto l’impietosa luce di un riflettore implacabile, un riflettore che ormai ha illuminato ogni angolo della senilità e della raggiunta maturazione della band che è ormai in lentissima me inesorabile fase di assestamento (discendente?), e con il suo picco creativo ormai abbondantemente raggiunto (decidete voi quando, ma sta senza dubbio da qualche parte perso tra “Souls At Zero” e “A Sun That Never Sets”) e superato. I cinquant’anni sono alle porte, le campagne placide e rassicuranti dell’Idaho e dell’Oregon (scelte come casa da Kelly e Von Till) sono ben lontane da quell’orrore urbano che è una città come Oakland, e dunque la rabbia cieca, quel carburante essenziale che era alla base di roventi e brucianti capolavori come “Through Silver In Blood”, non esiste più, sostituito ormai da una spiritualità e da una profondità concettuale pur sempre validissima, ma ormai più riflessiva e introspettiva che selvaggia, cieca, incontrollabile e quasi completamente priva di senno come fu a cavallo tra gli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio. Il folk, il post-rock e la musica roots americana, come ampiamente dimostrato dalla copiosa discografia solista dei Nostri, come in uno strano binomio geografico-concettuale, hanno ormai sostituito l’hardcore, l’industrial e il noise, espressioni sonore imprescindibili da ambientazioni urbane implacabili, che i Neurosis ormai non hanno più attorno a sé come primaria fonte di ispirazione. Seconda valutazione da fare è l’ormai più che decennale e apparentemente indissolubile sodalizio creativo con Steve Albini, inizialmente chiave fondamentale per una maturazione formale che ha partorito opere geniali come “Times Of Grace” e “ A Sun That Never sets”, oggi giogo stilistico che impedisce alla band un vero rinnovamento, e che ne ha tarato gli ultimi quattro o cinque dischi su un sound che da oltre dieci anni non cambia e che ormai stenta a riservare grosse sorprese. E infine dunque, ovviamente, bisogna parlare del songwriting e della qualità effettiva di queste canzoni, già parzialmente delineata nelle due riflessioni principali già effettuate sin qui. Della generale pacatezza dei mood e delle atmosfere della musica ne abbiamo già parlato, e di come questa derivi sia da una maturazione demografica che geografica della band, che ha fortemente compromesso fattori storici del sound dei nostri, primi fra tutti la rabbia e cieca distruzione che li ha resi celebri. La musica di “Honor Found In Decay”, che segue pur sempre il filo logico artistico sviluppato dai Nostri in quasi trent’anni di rabbia iconoclasta mista a sperimentazione, è anche però il frutto delle menti di dei quasi cinquantenni che oggi trovano il loro carburante artistico altrove rispetto al passato, ovvero come detto nel folk, nel blues, nella musica roots americana, e nel post-rock più etereo. Anche i momenti più heavy fanno traspirare questo assetto artistico nella band che appare ormai predominante e inamovibile, e che in effetti si materializza tramite sussulti metallici più tradizionali della storia musicale americana, ovvero tramite il doom metal d’annata (Obsessed, Trouble eccetera), e lo stoner rock. La parte centrale piena di fuzz e dal gusto quasi stoner-heavy psych di “Casting Of The Ages” ne è un esempio perfetto, e non è il solo. Basta tornare indietro al riff principale di “My Heart For Deliverance” (uno dei più pesanti del disco fra l’altro) che, tutto avvolto com’è nelle eleganti strutture del blues e dalle ammalianti note dell’organo Hammond, mostra una pesantezza sontuosa ma inoffensiva. Questo aspetto “classico”, ruvido, ma fondamentalmente innocuo della nuova (ma vecchia!) estetica heavy dei Neurosis è anche ben delineata dal sound delle chitarre di Kelly e Von Till, downtuned mai come oggi e sempre più impregnate di un fuzz caldo e avvolgente d’altri tempi, che le hanno quasi completamente tolto la lama e quelle frequenze taglienti e acuminate che anni fa aprivano squarci dolorosissimi nel tessuto sonico della band con una facilità incredibile. Stesso discorso si può fare per le voci di Kelly e Von Till ormai perennemente assestate su degli ululati rasposi e malinconici (per la verità spesso ripetitivi e monocorde, e ancora più spesso lamentosi) molto più vicini allo stile dei loro progetti solisti acustici che alle urla inferocite che permeavano le uscite di metà carriera, e che fanno trapelare una “vecchiaia” e pacatezza espressiva evidente. L’ultima e fondamentale riflessione da fare su questo comeback riguarda infine la innegabile prevedibilità del disco, concetto assurdo, questo, per una band come i Neurosis che ha costruito una intera e leggendaria carriera sul concetto del “mai guardarsi indietro”, e che in questa sede si lascia invece andare a dei riciclaggi, e ripescaggi dal passato al quanto sorprendenti. Basta prendere come esempio il finale di “We All Rage Through Gold” e “My Heart for Deliverance” in cui viene riproposto (addirittura in due canzoni!) lo stesso sample storto e arrugginito che chiudeva in un trionfo assoluto “Water Is Not Enough”, e che rivela una band “anziana”, stanca, impigrita e ormai poco battagliera, che nei momenti heavy mostra di far fatica a tirar fuori colpi di genio a rotta di collo come accaduto fino all’ultimo, grandissimo, “Given To The Rising”, e che è costretta ad andare a prendere in prestito elementi del passato per ovviare ai (tanti) momenti di indecisione e timore che costellano il disco. Stessa cosa accade nel finale tellurico di “All Is Found… In Time” e “Bleeding The Pigs” (in quest’ultimo si risentono addirittura gli echi dei sample di “Burning Flesh In Year Of Pig” ripescati addirittura dal 1993) in cui la band riesce a emulare (ma mai a ripetere) i fasti distruttivi di un tempo solo in extremis andando a riproporre in maniera furba ma assolutamente non paragonabile il tribalismo psicotico della title track di “Through Silver In Blood”. In linea definitiva “Honor Found in Decay” è il lavoro più pacato e rilassato mai realizzato dai Nostri che mostra le sue qualità migliori quando intento a sviluppare il lato più intimista del discorso, e che appare invece timoroso e svogliato quando affronta quelle “pesanti”, che in vero non riescono mai a rappresentare un pericolo vero in tutto l’arco del lavoro. Per averne la conferma definitiva basta soffermarsi sul finale di “My Heart For Deliverance” che ripropone il solito boato squassante alla Neurosis, con il suo accumulo minimalista che deflagra poi in pesantezza improvvisa, riproponendo ancora una volta il solito binomio “quiete – distruzione improvvisa” che il combo ha brevettato ormai vent’anni fa e che tutti gli hanno copiato, ma si affidano ad un violino per portarlo a compimento, diluendo il tutto in una deflagrazione sonica possente ma affatto agguerrita e dal feel quasi celtico e fiabesco. Placido dunque pur nella sua grandezza; sognante… effimero. D’altro canto invece è pregevole il gusto melodico mostrato dai Nostri, come quello mostrato per esempio nella parte centrale di “My Heart For Deliverance”, dominata da un binomio spoken word femminile-pianoforte struggente, o nella fase finale di “At The Well” (senza dubbio il pezzo migliore del disco, che sarebbe però anche stato l’anello debole su un album come “Given To The Rising) dominata da una riuscitissima linea di synth che sembra evocare il fiabesco suono di trombe. Il tutto ci mostra come Von Till e soci abbiano passato la maggior parte del loro recente letargo immersi nella ammaliante e rassicurante raffinatezza del folk, del blues e del rock d’annata invece che perpetrare il loro morboso gusto per gli scenari nefasti e distruttivi del doom e dell’industrial come accadeva una volta. Quando quei momenti arrivano, perché ci sono, sembrano però una svogliata riproposizione di soluzioni già tentate ampiamente in passato e che presto, quasi in preda ad una strana consapevolezza (che la voglia di annichilire tutto è bella che andata), mollano la presa e si riperdono in un intimismo tondo e riflessivo. Noi personalmente abbiamo ancora una volta gradito il lavoro di una band imprescindibile che immancabilmente irrompe sulle scene trasudando onestà e personalità da vendere da ogni poro, ma i tempi delle orecchie che sanguinano nell’incomprensione e nella distruzione più totale sono finiti, e l’amaro lasciatoci in bocca si sente, e come. Sette meno meno.