7.0
- Band: NIBIRU
- Durata: 00:55:55
- Disponibile dal: 26/05/2023
- Etichetta:
- Argonauta Records
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Ogni qual volta si sbatte la faccia contro la musica dei Nibiru, la prima reazione sarebbe quella di correre via impauriti, consci del potenziale di angosciante devianza che il gruppo torinese sa esprimere. Con gli anni e le numerose uscite susseguitesi, la creatura di Ardath è andata bene a fondo nell’esplorare il potenziale di doom, psichedelia, ambient, black metal nell’evocare i sentimenti più perversi dell’animo umano, i demoni che tormentano gli individui, i martorianti pensieri che dominano la psiche. Nonostante la frequenza delle uscite, i Nibiru sono stati bravi a non ripetersi e a sfornare costantemente album di buona fattura.
Con “Anamorphosis” provano a sorprenderci – relativamente – ancora una volta, dandoci in pasto un’unica traccia di quasi un’ora di durata. L’amore per i tempi lunghissimi da parte loro non lo scopriamo di certo oggi, di esempi in passato ne abbiamo avuti a iosa, ma presentare un disco del genere è una dichiarazione d’intenti forte. Una sfida portata alla sopportazione del prossimo, per quanto quel prossimo sia qualcuno avvezzo a sonorità ostiche come quelle contenute in “Anamorphosis”.
Il nero monolite proposto potrebbe essere suddiviso in due entità: la prima, di circa una mezz’ora di durata, è cantilenante, ipnotica, tribale e si perde tra rumori, scorci di mondi lontani, riti spregevoli, salmodiare gelidi e a stento riconducibili ad espressioni umane. Dentro questa prima porzione dell’opera, la band si prende ovviamente i suoi tempi, conducendoci in un’introduzione dai tratti ambient/ritualistici, con vari scampanellii e tintinnii a evocare uno scenario torbido, stretto tra magia nera e spiritualismo. Gradatamente, con un rumoreggiare moderato e sempre più minaccioso, la strumentazione metal fa il suo ingresso, rimanendo su tonalità grevi e mormoranti. Qui è la batteria e il suo tambureggiare regolare e sfinente a ergersi a protagonista, avviluppata da synth taglienti e un corredo di rumorismi che amplificano la visionarietà dell’insieme, suonando come una distorsione raccapricciante del prog rock psichedelico più sperimentale.
Chiaramente, anche volendo rimanere nell’ambito già abbastanza ostico del black/doom più dilatato e acido, è difficile rimanere connessi ad “Anamorphosis” se non si ha ben in testa quali siano gli intendimenti di Nibiru: musica celebrativa, di evocazione, introspezione e trasformazione, attraverso formule oscure e ben poco inclini a rendersi gradevoli. I recitativi di Ardath sono tanto teatrali quanto spaventosi, un incesto di parole il cui significato sarà arduo da comprendere, mentre l’effetto provocato, un misto di disagio, timore e straniamento, è percepibile un po’ da chiunque.
La seconda parte dapprima scivola mefistofelica, vischiosa e straziante verso un ritualismo concitato e, crediamo, zeppo di manifestazioni atroci, invocate aggressivamente da un Ardath posseduto da ferocia belluina. Anche in questo caso si nota in primo piano il fluttuare dei sintetizzatori, probabilmente l’attributo di spicco di “Anamorphosis”, eclatanti nel guidare la narrazione e fungere da connettori tra gli altri strumenti, il punto da cui tutto parte e tutto torna.
L’innalzarsi della violenza prevede per contraltare un altrettanto plumbeo decadimento, perché all’unico vero momento di accelerazione e frenesia segue un tetro immobilismo, un consegnarsi completo al buio. Solo feedback, voci strascicate, rintocchi tremolanti e radi inserti di altri suoni ci accompagnano verso la fine del viaggio. Questa lunga coda di rumori ci è parsa a dir la verità un po’ troppo insistita: a nostro parere i frangenti più minimali si sarebbero potuti sintetizzare in una durata ridotta, senza arrecare pregiudizio all’espressività del lavoro, mentre abbiamo apprezzato le percussioni sintetiche introdotte verso il finale e il ricrescere di un’angosciante pressione in chiusura.
La monotraccia, per come è costruita e condotta, assolve al compito di officiare un macabro rituale così come i Nibiru se l’erano immaginato: l’ascolto è veramente ostico, facendo sembrare digeribile il grosso dell’operato precedente della band. Difficile venga voglia di ascoltare spesso materiale simile, anche se pure in quest’occasione il trio torinese non è sceso sotto i suoi abituali standard.