7.5
- Band: NIBIRU
- Durata: 01:34:27
- Disponibile dal: 11/01/2014
Spotify:
Apple Music:
Non è semplice decifrare il percorso stilistico intrapreso dai Nibiru, terzetto sbucato l’anno scorso da Torino per arricchire di nuova linfa il sempre tonico panorama del doom nazionale. “Netrayoni” conferma le impressioni positive suscitate dall’esordio “Caosgon” e, pur fornendo inevitabili richiami a musiche già udite da altri interpreti, si staglia come oggetto raro e solitario all’interno dello scenario metal odierno. Definito dai suoi stessi autori come “The Extreme Art Of Improvisation”, in realtà il disco cavalca l’ebbrezza della jam session mantenendo quel minimo di organicità e logica per far sì che le tracce possano essere seguite ed assimilate come “canzoni”, anche se queste sono assolutamente fuori dai canoni e ramificate in mille direzioni diverse. Provare a spiegare dove vada esattamente a parare l’album, diviso in due CD denominati “First Ritual: The Kaula’s Circle” e “Second Ritual: Tears Of Kaly”, significa addentrarsi in una nuvola di suono dai confini poco delineati, in cui le chitarre si mischiano ad effetti di ogni tipo, ogni suono si riverbera libero da costrizioni, si espande e contamina tutto il resto. Si è scelto consapevolmente di creare frammentazione e contorni poco netti, facendo serpeggiare tra gli strumenti tipicamente metal note d’organo e sintetizzatori impazziti, così da inscenare un baccanale di sussurri notturni, di lugubri presenze nascoste nell’ombra, pronte a spaventare a morte chi abbia l’ardire di mostrarsi nudo alle minacce dell’oscurità. Nelle singole tracce ritroviamo un ridondare sfacciato di partiture doom/psichedeliche che, per brevi e turlupinanti tratti, si beffano di sembrare quasi normali, ma che si addentrano inevitabilmente in luoghi poco esplorati, in cui si viaggia storti e volatili senza timore di essere troppo strambi o difficili da seguire. Alcuni passaggi ricordano gli Electric Wizard, altri schiudono le porte di un’interpretazione sui generis e drogatissima dello stoner, mentre certe folate d’organo e alcuni sample omaggiano l’horror italiano anni ’70 e l’indefinitezza spiritica di taluni tratti lambisce le zone di manovra degli Ufomammut. Non è da dimenticare, e anzi, è assolutamente da evidenziare, l’apporto fondamentale del mini-didgeridoo, strumento a fiato originariamente utilizzato dagli aborigeni australiani, che non appare per la prima volta in un contesto metal, ma in questo caso assume un’importanza strategica, dando infatti la percezione di trovarsi in un tempo antico e selvaggio, legato a regole e costumi che nulla hanno a che vedere con la modernità e attengono agli istinti primitivi e a culti ormai desueti. La Babele di suoni appena narrata viene infine lasciata completamente imbizzarrire dalla propensione a jammare da qui all’eternità manifestata in tutto il lavoro. Emergono dallo scorrimento in multistrato delle tracce, con sintetizzatori e organo che partendo da volumi più bassi risalgono a rubare la scena al canovaccio metallico, e il mini-didgeridoo che ronza implacabile, alcuni momenti più pregnanti della media e che si fanno ricordare per una percorrenza nelle lande del doom particolarmente avvincente. La prima traccia “Kshanika Mukta” è quella più vicina a un vago concetto di normalità, tra agghiaccianti intermezzi parlati, presi da un vecchio film dark italico (si presume), ballano cadenze care ai primi tempi della Bestia Elettrica e ci si trova a vivere un incubo di streghe che lottano per ottenere la supremazia sul Bene, e alla fine hanno la meglio dopo lotta cruenta. Questa è la traccia più strutturata e meno disciolta in rivoli astratti, e grazie ai sample che la dividono in almeno tre capitoli distinti si candida a pezzo simbolo di “Netrayoni”. “Celeste: Samsara Is Broken” accresce i sentori space, gli effetti si alzano di volume e una cantilena robotica si avvinghia ad essi in un mantra partorito dall’uomo per gettarlo fuori dalla sua dimensione terrena, per poi sfociare in un guazzabuglio di feedback tumultuosi e percussioni scatenate; “Qaa-Om Sapah” ha il suo punto di forza nell’interpretazione vocale più rabbiosa e canonica rispetto al resto della tracklist, in quanto la voce assume un ruolo più da protagonista, e scriteriatamente ci aggredisce in impeti suscitati da abusi di sostanze psicotrope. Una release-fiume come questa attira all’ascolto nonostante il discorso affrontato sia tutto fuorché facile da comprendere, e al netto di qualche inevitabile fase di stanca, dovuta più ai tempi lunghi del lavoro che ad uno scadimento qualitativo, riteniamo che se normalmente vi fate irretire dalla corrente più sperimentale della psichedelia innestata nel doom, questo è il disco che fa per voi.