8.0
- Band: NIBIRU
- Durata: 01:06:35
- Disponibile dal: 18/05/2015
- Etichetta:
- Argonauta Records
- Distributore: Goodfellas
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Il discorso adesso è serio. Tremendamente serio. I Nibiru mostrano una prolificità notevolissima, e sfornano il terzo disco in altrettanti anni. Non li ferma più nessuno e, a forza di costernarci, mandarci il cervello in pappa, accanirsi su di noi con fasci di onde elettromagnetiche insostenibili per una menta umana, rischiano di farci perdere il senno. “Padmalotus” arriva neanche un anno e mezzo dopo “Netrayoni”, doppio album di stoner/doom psichedelico che definire sperimentale era un semplice eufemismo. Un’opera dai contenuti deliranti, indefinita, richiamante universi sensoriali cari a Electric Wizard, Ufomammut, divelte da partiture assurde fra la soundtrack orrorifica, pazzie lisergiche, trip di acidi potentissimi da cui non si poteva uscire senza aver prima subito danni permanenti. Avevamo tessuto le lodi di quel lavoro, non immaginandoci che ci saremmo trovati così presto al cospetto di un nuovo album. L’esiguo tempo trascorso potrebbe indurre a credere in un semplice processo di assestamento e limatura di quanto già noto. Secca smentita nei fatti: la formazione torinese, abbinando alla fascinosa musica un approccio lirico/tematico particolarissimo, incentrato sulla spiritualità hindu nelle sue versioni più perverse, ha assunto una forma più sentitamente metal, risultando a questo giro più “assimilabile” rispetto al recente passato. I suoni si sono induriti, la produzione dona una coesione granitica a uno stile che, per sua natura, non ha alcuna intenzione di essere mansueto e fruibile. Le durate delle singole tracce sono rimaste pantagrueliche, si specchiano narcisisticamente nella propria depravata reiterazione di chitarre iperdistorte e allungate in spirali senza fondo, sragionate, spietate. Voci mantriche possedute, innaturali e lascive, rimbombano in uno strazio oscenamente cerimoniale, al cui confronto anche i sovrani indiscussi dello stoner/doom più irrazionale sono costretti a inchinarsi, e a riconoscere un grado di follia più spiccato del proprio ai piemontesi. Il mini-didgeridoo e l’organo sono ancora meglio amalgamati che nel disco precedente alla strumentazione tipicamente metal, la compattezza dell’insieme sottolinea la bontà del lavoro di registrazione, ad opera della stessa band. Se “Krim” è abbastanza affine a quanto già prodotto in passato, “Ashmadaeva” spiazza con passaggi in odore di black metal evoluto, e quindi si perde nel gothic/dark italiano di qualche decennio fa, tra sample, tastiere alla Goblin, rumori sinistri, sussurri, presagi di sadiche creature pronte a dilaniarci da un momento all’altro. Nella seconda parte, la psichedelia deflagra secondo movimenti quasi ignoranti e chiassosi; c’è un’anima rock, nel profondo, a scuotere le membra dei Nibiru. “Trikona” sfodera una malvagità spregiudicata, incontenibile, aggrappandosi a un basso opulento, un enorme randello uso a rimpolpare di bolle cementizie un chitarrismo irregolare, avanzante a ondate di rumore strabordante fuzz. Eppure concreto e urtante come una catasta di mattoni scaricata sulla propria auto in sosta. Nibiru, maestri nel circuire e colpire da ogni lato: circolarità nell’aggressione, nello stordimento, nella stretta sui poveri neuroni, appagati anche nelle voglie di puro intrattenimento, perché nella terza traccia il gruppo regala scampoli di melodia, un minimo di armonia disagevole e spirituale. Arie bramine e vocalizzi gutturali raccapriccianti si inanellano e si agitano l’uno contro l’altro, annullando i contrasti ed emulsionandosi in un liquame sonico delizioso. La manipolazione del suono e la sua riconversione in qualcos’altro, che renda nota la radice di partenza ma finisca per configurarsi come un oggetto a sé stante, è l’architrave del Nibiru-pensiero. Dissezionare l’esistente, per ricomporlo secondo connotati deformi. Arriviamo a “Khem”, e saliamo un altro gradino nel nostro percorso di ascesi/perdizione: i tre danno vita a uno spettacolo grottesco, dove il metal più spettrale si accompagna a un utilizzo delle percussioni finissimo, lo sludge al calor bianco si contamina di piccoli filler, strati di rumore si adagiano gli uni sugli altri, mentre voci squinternate si rincorrono a indorare la pillola di cianuro che stiamo gustando. Sembra quasi di sentire un’estremizzazione dei migliori Kylesa, visto il clamoroso effetto di trascinamento cui si viene sottoposti. Quando il drone minimale si intromette per molti minuti ad attutire i colpi del torrenziale attacco, sembra che si scivoli verso un lisergico declivio: errore! I Nibiru, quando tutto ormai pare essersi acquietato, riprendono a spingere con maggiore lena, e menano le danze su uno stoner/doom sporcato di sludge di grande forza e impatto, ricongiungendosi qui a modalità operative più “classiche” rispetto al genere di appartenenza, e con la stessa sicurezza denotata nelle parti meno convenzionali. Se li avete apprezzati con i dischi precedenti, “Padmalotus” non vi deluderà di certo: se ancora non vi siete imbattuti in questi alteri figuri, e siete di ampie vedute, quest’album potrebbe rappresentare una delle sorprese più entusiasmanti dell’anno.