7.0
- Band: NIBIRU
- Durata: 01:06:09
- Disponibile dal: 13/11/2020
- Etichetta:
- Argonauta Records
- Distributore: Goodfellas
Spotify:
Apple Music:
Nonostante la frequenza delle pubblicazioni cui si sottopongono, ai Nibiru è difficilmente imputabile l’accusa di prolissità ed inutile ripetizione di sé. La formazione torinese approda al sesto album in circa nove anni di vita, periodo speso a dissertare di antichi culti, perversioni, ritualità abiette, con la nonchalance di chi sperimenta in prima persona i gesti e gli atti dei quali tratta, e che ha una conoscenza della materia occulta ben al di sopra della media. A partire da “Padmalotus”, le sembianze vaporosamente indefinite si sono addensate in un costrutto metallico sfaccettato, rispondente tanto allo stoner psichedelico molto ‘free’ dei primi lavori, quanto a doom sperimentale, black metal, ambient, con abbondanti incursioni nella musica ritualistica e tribale. Un universo ampio, misterioso, nel quale la band ‘nuota’ libera e sardonica, sbeffeggiando i generi e plasmando ogni volta album di forte personalità. A dispetto di durate-monstre delle singole composizioni e di un’impronta inconfondibile, ogni disco non ripresenta pedissequamente contenuti già editi, appena rimescolati per giustificarne la pubblicazione.
“Panspermia”, nel rimpallo tra extreme metal e sonorità dilatate e incostanti adomesticate dai Nibiru in questi anni, si pone sul secondo versante, riprendendo gli andamenti nebulosi, caotici, imponderabili di “Netrayoni” e quelle sue strutture/non-strutture. In raffronto a quello che rimane comunque il disco più difficile concepito da Ardath e RI Salma, l’inerzia metal vi fa comunque capolino, dando pesantezza e vigore a quattro tracce comunque di nient’affatto facile digestione, ognuna caratterizzata da un percorso stilistico a sé stante. “Alkaest” affoga in un diluvio di feedback, recitazioni, rantoli, alternando divagare drone e poderose martellate sludge-doom, imbottite di confusione, disturbi, così che l’ascolto non sia mai libero da un senso di invasivo disordine. Il trio non ama assestarsi su andamenti ben definiti, si abbandona alla trance indotta dai riti evocati, dando libero sfogo alle blasfemie proferite da Ardath, attorniato da irti rumorismi, dominanti nella seconda parte della traccia di apertura. “Aqua Solis” accentua la destrutturazione, la lontananza e il disinteresse per una scrittura vagamente ordinata; ambient e drone prendono una curvatura ancor meno chiara, la musica scorre in una dimensione narcolettica, scarna, prolungandosi lungamente in uno stadio di snervante indefinitezza. Si mischiano suggestioni orrorifiche e rimandi alla musica ritualistica orientale, in un connubio raggelante. Nella seconda metà i ritmi si elevano, portando a una progressione sporca e malsana, dilaniata di spunti noise e lordata da vocals al solito velenose e disumane.
Con “Efflatus”, la percezione di ascoltare musica costruita apposta per una speciale celebrazione si fa ancora più tangibile; lugubri armonie di tastiera ondeggiano senza voler spostarsi da un lento movimento concentrico, le percussioni entrano a battere le cadenze di una danza tribale, che si ammalora appena Ardath parte con il suo versificare enochiano. Un diluvio black-noise prende infine possesso del brano, mandandolo in tutt’altra direzione, verso un sordido massacro. Un pianto getta invece nello sconforto in principio di “Kteis”, rendendo insalubre l’atmosfera con solo questo espediente e tastiere liturgiche. Un frammento depressive/funeral doom, dove a dare il passo sono delle immaginarie catene, trascinate da un essere ridotto in schiavitù (o almeno, così si potrebbero interpretare i rumori che sentiamo…).
In ultimo, si può dire che i Nibiru abbiano offerto una differente prospettiva dalla quale interpretare il loro lavoro di studio e spiegazione dell’occultismo in musica; la poca accessibilità, anche in rapporto ad altri loro capitoli discografici, non ce lo fa apprezzare come un “Padmalotus” o un “Salbrox”, mentre abbiamo pochi dubbi sull’efficacia di tale proposta per chi è al contrario devoto a sonorità sfibranti, allungatissime e a dir poco angosciose.