7.5
- Band: NIBIRU
- Durata: 01:04:27
- Disponibile dal: 10/05/2019
- Etichetta:
- Ritual Productions
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È il rumore di un’ammorbante angoscia quello che ci circonda durante “Salbrox”. La creatura di Ardat, tumultuoso camaleonte musicale che fa del disturbo lacerante il suo marchio di fabbrica, trasmigra in un’altra raccapricciante forma, rivoltandosi dentro se stessa, per protendersi in un nuovo osceno altrove. Basterebbe la prima traccia per capire quanto sia possibile agghiacciare e mettere a disagio, partendo da concetti abbastanza semplici e sviluppandoli secondo una logica di sconvolgente degradazione nella pazzia. “ENHB” parte e si chiude con frasi in enochiano, dentro il suo quasi quarto d’ora di durata mette in scena un mormorante soliloquio di Ardat, corredato di uno stoner-doom filamentoso e ornato di melodie orientali, pruriginose come la notte in un soffocante bordello d’estate. La batteria riecheggia del lento battito di un cuore di uomo morente, oppure caduto in una trance mistica-malata dal quale non può o non vuole svegliarsi. E se ciò appare insostenibile nelle prime battute, con lo scorrere del tempo avvinghia in un abbraccio saldo, ponendosi quale sozzo veicolo di tentazione. La voglia di andare avanti si fa allora forte e la band non si fa pregare, nell’insistere in un minimalismo di frequenze sinistre, fredde, sfibranti per la sensazione di infinita attesa della morte che portano con sé.
Il rantolante cantato in italiano di Ardat non può che essere il centro focale, protagonista di un’opera di flagellazione che non conosce requie, che si nutre di ossessioni e autopunizioni, in un ciclo di reiterazione e aumento della sofferenza che si spinge verso le manifestazioni dell’orrore più pure e irrazionali. Effetti da soundtrack suggestionano all’interno di un dondolamento nello stoner più tenebroso, invischiato nel disfacimento, storpiato nelle fondamenta. Gli accenni a un fraseggiare metal di fattura meglio distinguibile, gli strappi black metal o la pesantezza abnorme dello sludge-doom, rinvenibili in “Padmalotus” e “Qaal Babalon”, sono inghiottiti da questa nuova incarnazione, che recupera l’indefinitezza di “Netrayoni” e la colloca in una dimensione a sé stante. C’è un motivo di fondo, un’aria di sitar screpolata e rotta nell’armonia, che congiunge una traccia all’altra, un rimando persistente a un qualcosa che non si manifesta compiutamente, ma fa sentire la sua presenza, alita sul collo il suo insostenibile fetore.
Il ritual-ambient di “HCOMA” toglie il fiato, il moto percussivo arriva da un tribalismo spietato e rimasto incardinato in tenebre mentali non squarciabili per chi non sia adepto di taluni misteriosi culti. Vi è molta ricerca e complessità nell’uso delle percussioni e nelle striature delle slabbrate esondazioni chitarristiche, una matassa di suoni acuti e urticanti, irrobustiti da un basso che da solo potrebbe reggere l’intero peso delle ritmiche. Pure quando si ricorre a un limpido pianoforte e a intervalli di silenzio (“BITOM”), l’impatto emotivo è notevole, perché ogni nota è dosata con trasporto e attenzione, affinché risuoni potente nell’animo di chi ascolta.
Stride contro la razionalità e l’abbatte in uno scoppio di carne e psiche “Salbrox”, cupamente profetico di una dissoluzione dell’anima nella perversione di un altrove privo di agiatezze e colmo di tormenti. Un approdo finale splendidamente descritto fra i contrasti ottenebranti della conclusiva “RZIORN”, che si apre a un misticismo quasi plaudente una rinnovata purificazione, peccato lo sappiamo essere un semplice inganno, per rendere atroce l’ultima tappa del calvario. Perché poi in effetti è il caos – descritto da una straniante chitarra acustica – a catturarci e farci prigionieri. Per cuori forti e impavidi, o solo disposti a provare il male e provarne piacere.