9.0
- Band: NIGHTWISH
- Durata: 00:53:03
- Disponibile dal: 07/12/1998
- Etichetta:
- Spinefarm
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A pensarci ora fa un po’ sorridere, visto come siamo abituati ad associare il nome Nightwish a delle produzioni hollywoodiane, ma c’è stato ovviamente un momento in cui le ambizioni di Tuomas Holopainen erano ben più elevate dei mezzi all’epoca disponibili. Ad un solo anno di distanza da “Angels Fall First”, debutto promettente ma ancora acerbo sotto molti aspetti, la formazione di Kitee è ancora pervasa dall’entusiasmo giovanile di tutti i membri (nel frattempo passati da quattro a cinque, con l’ingresso del bassista Sami Vänskä) e ben lontana dalle logiche del music business emerse negli anni successivi , il che porta in dote un lavoro non levigato come le produzioni più recenti (basti pensare che la batteria è stata registrata nello spogliatoio di una palestra!) ma al contempo traboccante passione, al punto che lo stesso mastermind lo considera ancora oggi nel podio delle sue migliori composizioni.
Pesantemente influenzato dal power metal allora in auge – “Visions” degli Stratovarius era uscito da poco, aprendo la strada alla conquista mondiale della Finlandia ad opera dei vari Children Of Bodom, Sonata Arctica e H.I.M., oltre agli stessi Nightwish – questo secondo, album fin dall’opener “Stargazers”, ricalca tutti gli stilemi tipici del genere rivisitati in una chiave più ‘elegante’: le percussioni del batterista Jukka Nevalainen sono dunque martellanti, ma senza abusare della doppia cassa; il riffing di Emppu Vuorinen è al servizio del pezzo e non ruba la scena, pur ritagliandosi qualche gustoso spazio solista; le tastiere di Tuomas Holopainen sono ovviamente protagoniste, affiancate però a strumenti classici (viola, violino, violoncello e flauto); e infine c’è il cantato di stampo soprano-lirico di Tarja Turunen, impreziosito da testi poetici senza per forza voler essere criptici a tutti i costi (un esempio su tutti il simbolismo religioso di “Gethsemane”).
Una formula vincente che presenta saggiamente alcune variazioni sul tema: se l’oscura “Devil & the Deep Dark Ocean” e “The Pharaoh Sails To Orion” giocano la carta del cantato maschile (ad opera dell’ex-Fintroll Tapio Wilska) cara ai Theatre Of Tragedy, “Swanheart” di contro è una ballad perfetta per enfatizzare il range vocale di Tarja, mentre la strumentale “Moondance” riprende le atmosfere folk dell’esordio seguendo la regola d’oro dei sequel (‘uguale al primo, ma di più!’), arrivando ad incidere venti diverse tracce di violino manco fossero i Beatles o i Queen. Impossibile non citare anche “Passion And The Opera”, a metà tra Andrew Lloyd Webber e i già citati Theatre Of Tragedy, così come il singolo “Sacrament of Wilderness” (curiosamente edito in uno split EP insieme agli Eternal Tears of Sorrow e ai blackster Darkwoods My Betrothed), capace di arrivare in cima alle classifiche in madre patria alla stregua del successivo “Walking In The Air”, cover dell’omonimo brano realizzato da Howard Blake per il cartone “Snowman” nonchè titolo di una futura compilation contenente le ballad dei primi quattro dischi. E a proposito di ballad una menzione a parte la merita “Sleeping Sun”, probabilmente la migliore nel suo genere mai scritta dalla band: registrata a seguito dell’uscita dell’album per celebrare l’eclissi solare avvenuta l’11 agosto del 1999 (nel singolo erano addirittura presenti degli speciali occhiali), porterà i Nightwish ad un passo dall’Eurovision Song Contest (arrivò terza nelle qualificazioni per la Finlandia) e soprattutto verrà poi aggiunta nell’edizione europea uscita lo stesso anno, contribuendo al successo dell’album anche nel resto del vecchio continente.
Ad un quarto di secolo di distanza dalla sua uscita è innegabile come questo disco sia la pietra angolare su cui si poggiano tutte le opere successive con Tarja Turunen (da “Wishmaster” fino al celeberrimo “Once”), così come un punto di svolta per il symphonic metal che esploderà definitivamente nel nuovo millennio, portando a lavori sempre più formalmente perfetti ma in buona parte privi di quel colore naturale che si respira tra i solchi di “Oceaborn”, specchio dei tempi che furono (a partire dalla copertina) ma cui è giusto riconoscere il ruolo storico per la band, l’etichetta e il genere tutto.