6.0
- Band: NILE
- Durata: 00:53:54
- Disponibile dal: 23/08/2024
- Etichetta:
- Napalm Records
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Se dovessimo stilare un elenco dei musicisti più umili e tenaci prestatisi alla causa death metal, il nome di Karl Senders non potrebbe che figurare ai primi posti. Dal 1993, anno di nascita dei Nile, il Nostro si è praticamente sempre distinto per un’etica del lavoro fatta di dedizione e sacrifici, la quale ha consentito alla sua creatura di passare da minuscola realtà underground di Greenville (non proprio Tampa o New York, in quanto appeal sul pubblico e sulla critica) a vero e proprio colosso della scena internazionale, al punto da diventarne uno dei massimi traini quando – a cavallo del nuovo millennio – il genere ristagnava e molti dei totem del decennio precedente (Deicide, Obituary, Suffocation, ecc.) annaspavano o si erano allontanati dalle scene.
Un (lungo) periodo d’oro scandito da album di successo, dalla firma di contratti ‘pesanti’ come quelli con Relapse e Nuclear Blast e da un livello di visibilità impensabile in relazione alla tipologia di proposta (basti pensare alla partecipazione all’Ozzfest 2007), ma che ormai da parecchio tempo – diciamo dalla fuoriuscita di Dallas Toler-Wade, cantante, chitarrista e braccio destro del leader su tutti i classici della discografia – non sembra destinato a ripetersi o a replicare certi exploit artistici.
Perché se è vero che nel 2019, con “Vile Nilotic Rites”, Sanders era riuscito a mettere a segno un colpo insperato, sfruttando l’entusiasmo dei nuovi membri e facendo quadrato attorno ai punti di forza del brand, oggi la sensazione è che buona parte della benzina sia finita, con ulteriori rimpasti tra le fila dei componenti e una gestazione che sa effettivamente di travagliato a segnare un’opera lungi dall’essere a fuoco, sospesa fra velleità di rinnovamento e un riciclo di spunti troppo standard per salvare da solo la baracca.
Registrati gli ingressi di Dan Vadim Von dei Morbid Angel al basso e di Zach Jeter degli Olkoth alla voce/chitarra (il quale affianca nel ruolo Brian Kingsland, presente in studio ma impossibilitato a seguire la band in tour), “The Underworld Awaits Us All” declina quindi il tipico songwriting dei Nile – tecnico, brutale, articolato – in una chiave un filo più moderna e roboante del solito, ora appoggiandosi a chitarre che, invece di colpire duro con riff memorabili, insistono su ‘piri piri’ tanto meticolosi quanto innocui (il singolo “Chapter for Not Being Hung Upside Down on a Stake in the Underworld and Made to Eat Feces by the Four Apes”), ora giocando di accumulo senza però disporre delle idee sufficienti a coprire la durata media dei pezzi.
Un concetto evidente fin dall’opener “Stelae of Vultures”, la cui partenza autocitazionista ma gradevole si evolve presto in un costrutto estenuante e farraginoso a livello di cambi di tempo, e che soprattutto nella seconda parte della tracklist, con episodi ancora più ‘ricchi’ e intarsiati di cori come “Overlords of the Black Earth”, “True Gods of the Desert” e la titletrack, sa rendere l’ascolto difficoltoso, sottolineando una mancanza generale di efficacia e di brio e perdendo malamente il confronto con molti dei capitoli precedenti.
A conti fatti, occorre tornare sui passi del debole “At the Gate of Sethu” per trovare un disco dei Nile a cui paragonare “The Underworld…”, e questo, se avete presente il suddetto lavoro del 2012, non può certo essere considerato un dato rincuorante.
Allo stesso tempo, dopo una carriera che – come detto – prosegue imperterrita da oltre tre decenni, un repertorio di dieci full-length e sessantuno anni all’anagrafe, sarebbe ingeneroso scagliarsi contro Sanders per il contenuto non esattamente fresco e accattivante di questi undici brani; nel 2024, il futuro del death metal passa sicuramente da altre vie, mentre la nomea dei Nile, anche a fronte del nuovo passo falso, è e resta al sicuro. La dinastia dei faraoni, sebbene con qualche fisiologica difficoltà, va insomma avanti.