NINE INCH NAILS – Pretty Hate Machine

Pubblicato il 21/06/2025 da
voto
9.5
  • Band: NINE INCH NAILS
  • Durata: 00:48:48
  • Disponibile dal: 20/10/1989
  • Etichetta:
  • TVT Records

Spotify:

Apple Music:

Brian Koster fa l’ingegnere del suono. Si è diplomato alla Berkeley agli inizi degli anni Settanta, vive Cleveland, in Ohio e qui, nel 1987, ha deciso di costruire il suo studio. Lo ha chiamato The Right Track, per il momento: nel 1992 lo ribattezzerà Midtown Recordings e lo sposterà a Westlake, sempre in Ohio.
Mentre lo studio è ancora in costruzione, Brian Koster assume come assistente e tuttofare un tipo che ha conosciuto perché faceva il commesso in un negozio di cui è cliente, il Pi Keyboards & Audio, che vende strumentazioni audio e tastiere. Il tipo in questione ha ventitré anni, ha mollato quasi subito il corso di ingegneria informatica al college, ha suonato la tastiera in diverse band della città (tutte collaborazioni durate poco) ed è straordinariamente meticoloso. “Mette così tanta concentrazione in tutto quello che fa”, dichiarerà in seguito Koster, “quando quel ragazzo dava la cera al pavimento, veniva da dio”.
L’accordo è che in cambio di far brillare i pavimenti e dare una mano in studio, il giovane ex commesso potrà registrare le sue cose durante gli orari di chiusura a un costo prossimo allo zero. È un accordo decisamente più vantaggioso per Koster, ma avrebbe permesso a quel tipo meticoloso di intraprendere un percorso che lo avrebbe portato, trentacinque anni dopo, a diventare uno dei musicisti più influenti della sua generazione, vendere milioni di dischi e vincere qualcosa come due Grammy, un Emmy, un BAFTA, tre Golden Globe e due Oscar.
Quel tipo si chiama Michael Trent Reznor.
Nei ritagli di tempo, Trent Reznor incide al The Right Track alcune demo e un bootleg live più tardi pubblicato col titolo di “Purest Feeling”, che contiene molto di quello che diventerà l’album di debutto del suo progetto solista– il cui primo nome è Crown Of Thorns, quasi subito cambiato nel più intrigante Nine Inch Nails.
Grazie ai primi show in apertura agli Skinny Puppy e al management informale dell’amico John Malm Jr. (poi ex manager, poi ex amico), i Nine Inch Nails catturano l’interesse degli addetti ai lavori e firmano con la TVT Records, un’etichetta nata da poco e specializzata in musiche per la televisione.
Con un vero budget in tasca, per quanto non stellare, Reznor può finalmente investire in alcuni degli studi e dei produttori dei suoi sogni: Adrian Sherwood, John Fryer, Keith LeBlanc, Flood. Dovrebbe essere solo quest’ultimo ad occuparsi di tutto l’album, ma finisce fagocitato dalla produzione di “Violator” dei Depeche Mode. Per il resto, Reznor lavora praticamente da solo, passando venti giorni a suonare, cantare, campionare, sequenziare, incidere, mixare.
Il risultato finale è un incrocio di Cabaret Voltaire, Nitzer Ebb, Prince, heavy metal, ritornelli quasi pop e strofe rap: è “Pretty Hate Machine” e quando alla TVT lo ascoltano per la prima volta ci restano malissimo. È un disco molto più scuro di “Purest Feeling”, molto più cupo nei suoni ma anche più esplosivo e più groovy. Soprattutto, è un disco in cui della chitarra di Richard Patrick (poi leader dei Filter) e della batteria di Chris Vrenna (che in futuro suonerà anche nella ‘creatura’ rezorniana chiamata Marylin Manson) non c’è quasi nulla: “Tutti i suoni di batteria di ‘Pretty Hate Machine’ vengono dai dischi di qualcun altro”, ha dichiarato Reznor stesso al magazine “Keyboard” nel 1990; e viene da dischi, film, ascolti casuali e campioni creati ad hoc quasi tutto quello che si sente nell’album. Reznor e il presidente della TVT litigano, ma il musicista si impunta e alla fine il disco esce come dice lui. Per fortuna.

“Pretty Hate Machine” (Halo 2, secondo la nomenclatura della band) apre sull’ultimo pezzo che Reznor ha scritto per l’album. È “Head Like A Hole”, e già da solo è una cannonata: una sardonica preghiera al Dio Denaro, con un bridge incazzatissimo e un ritornello che è insieme ballabile e quasi metal. Percussioni campionate, un giro di synth che strizza l’occhio a Martin Gore, chitarre che entrano solo al massimo del climax e una voce che il testo, più che cantarlo, lo sputa addosso all’ascoltatore: è il nuovo sound dell’industrial, anche se forse né la TVT, né lo stesso Reznor se ne sono ancora resi conto. È un sound che regge lo strascico degli anni Ottanta ormai al tramonto mentre incedono verso l’alba dei Novanta, che questo lavoro (e ancor più quelli dopo) influenzeranno profondamente. Un sound che gratta via la vernice scintillante di un decennio per mostrare la ruggine del disagio che nasconde, e che sarà protagonista assoluto di quello a venire.
Proprio l’atmosfera di decadentismo post-industriale è destinata a imporsi come uno dei marchi di fabbrica assoluti dei Nine Inch Nails, insieme ad una vena sensuale – o proprio sessuale – piuttosto esplicita e neanche tanto velatamente fetish. Entrambi questi elementi sono veicolati con un linguaggio tanto coerente a sé stesso quanto multiforme, originalissimo e insieme trasversale: non importa se si arriva a “Pretty Hate Machine” da un background dance, elettronico, funk, rock, metal o hip-hop, dentro c’è tutto e anche qualcos’altro di inedito, spiazzante e assuefacente.
Per avere una dimostrazione concreta di ciò di cui stiamo parlando, prendiamo ad esempio i primi tre brani dell’album, ovvero la già citata “Head Like A Hole”, “Terrible Lie” e “Down in It”, che è la prima canzone in assoluto composta da Reznor per i Nine Inch Nails ed anche il singolo di lancio di questo lavoro. I primi due pezzi quasi evolvono l’uno nell’altro, come un corpo che produca cronenberghianamente una sorta di appendice a sé organica e al tempo stesso aliena. Il terzo brano, invece, marca uno stacco più netto, che non solo non spezza la continuità del discorso, ma anzi, vi aggiunge dinamismo. Dinamismo accentuato anche da sottili ma apprezzabili sfumature nella produzione, affidata a mani diverse su ciascun brano; ma soprattutto messo in evidenza dalle metamorfosi di cui i Nine Inch Nails si dimostrano capaci: dal durissimo ma orecchiabile brano di apertura si passa, infatti, ad un downtempo in cui profonde stratificazioni sonore vengono sferzate fino alla fuoriuscita di una melodia dissonante e ipnotica; e da qui, ancora, si vira verso strofe rappate e un ritornello cupamente radio-friendly.
L’album prosegue sprofondando in abissi sempre diversi, sempre più sporchi e profondi, e tuttavia mai troppo ostili. “Sanctified” torna alle suggestioni elettroniche aggiungendo un memorabile slap di basso e un testo quasi freudiano, mentre “Something I Can Never Have” è una bolla di malinconia per piano e voce che galleggia tra campionamenti di porte sbattute e canti di uccelli. Dopo questa digressione il ritmo risale attraverso “Kinda I Want To”, uno dei pezzi più ‘storti’ e avanguardistici del platter, per raggiungere “Sin”, forse l’episodio in cui le sonorità del dance-pop anni Ottanta si fanno sentire con maggior decisione.
La misura di quanto “Pretty Hate Machine” sia un album metamorfico, però, viene anche da brani come “That’s What I Get”, in cui l’industrial lambisce il blues tenendovisi aggrappato, ancora una volta, con una linea di basso molto riconoscibile e con l’autocitazione di un synth già sentito in “Down In It”: non male, per un pezzo che doveva restare un b-side. Ma i cambi di pelle non sono finiti e c’è ancora tempo per indulgere nel tripudio di synth di “The Only Time”, prima che le vibrazioni rock di “Ringfinger” esplodano in scratching e dissonanze che assomigliano, in qualche modo, al delirio di strumenti sfasciati e autolesionismo che chiudono i live dei Nine Inch Nails.
Live che diventano ben presto famosi, anche grazie alla stage persona radicale e nichilista di Trent Reznor – cui la persona che Reznor è nella vita inizia a somigliare sempre di più. Il successo lo stritola, il mercato discografico lo ripugna, i rapporti con la TVT si disintegrano. Alcool e droga diventano un rifugio dalla depressione e da un’alienazione sempre più opprimenti.
Nel 1992, Trent Reznor si trasferisce al 10050 di Cielo Drive, a Los Angeles, nella casa in cui la Manson Family aveva sterminato Sharon Tate e i suoi amici. È qui che scrive qualcosa che sorpassa quel “Pretty Hate Machine” che sente già immaturo; qualcosa di ancora più oscuro, più grande e più potente. Il bellissimo e feroce EP “Broken”, certo, ma anche qualcosa che segna un prima e un dopo nella musica di quegli anni. Qualcosa di viscerale, irripetibile e meravigliosamente doloroso, che decide di chiamare “The Downward Spiral”.

TRACKLIST

  1. Head Like A Hole
  2. Terrible Lie
  3. Down In It
  4. Sanctified
  5. Something I Can Never Have
  6. Kinda I Want To
  7. Sin
  8. That's What I Get
  9. The Only Time
  10. Ringfinger
0 commenti
I commenti esprimono il punto di vista e le opinioni del proprio autore e non quelle dei membri dello staff di Metalitalia.com e dei moderatori eccetto i commenti inseriti dagli stessi. L'utente concorda di non inviare messaggi abusivi, osceni, diffamatori, di odio, minatori, sessuali o che possano in altro modo violare qualunque legge applicabile. Inserendo messaggi di questo tipo l'utente verrà immediatamente e permanentemente escluso. L'utente concorda che i moderatori di Metalitalia.com hanno il diritto di rimuovere, modificare, o chiudere argomenti qualora si ritenga necessario. La Redazione di Metalitalia.com invita ad un uso costruttivo dei commenti.