9.5
- Band: NINE INCH NAILS
- Durata: 01:05:02
- Disponibile dal: 08/03/1994
- Etichetta:
- Interscope Records
- Nothing Records
Spotify:
Apple Music:
La spirale discendente verso l’oscurità più insana. Una delle rappresentazioni più sincere di quello che è stato l’epoca degli anni Novanta, nella sua vena psicologica, nei meandri dell’autodistruzione artistica che ha abbracciato un’intera generazione di giovani artisti. Un disco maledetto. Che si è voluto configurare come tale fin dalla fase di produzione. Quella villa in Cielo Drive, quella scritta sul muro, quell’aura di sangue che ristagnava nella villa Polanski. La voce malata dell’epoca, la sua rabbia, il suo rifiuto del mondo alla televisione, la sua ribellione, la sua violenza, viene simboleggiata da quello che è il percorso verso il baratro più oscuro di questa caduta. Si è creato un vero e proprio mondo in rete su questo disco. Risvolti politici, esistenziali, dissertazioni, segreti. Un mondo intero che non si pretende di esaurire in questa recensione. Quello che è sicuro è che, ancora oggi, a quasi vent’anni dalla sua uscita, queste note e queste liriche non hanno ancora esaurito la loro quintessenza. Dopo il disco d’esordio, “Pretty Hate Machine”, e lo stupendo EP “Broken”, il compositore della Pennsylvania supera del tutto ciò che lo teneva fermo ai suoi capisaldi musicali (Ministry, Skinny Puppy, Throbbing Gristle) riuscendo a trovare il suono perfetto, quello più adatto per dare voce ai suoi incubi lirici. E questo suono perfetto non è nient’altro che la perfetta summa, il climax preciso e paradossale, di quello che la musica industrial rock (e metal) stava tentando di raggiungere da qualche anno. Aiutato da compagni d’eccezione quali i producer Flood e Alan Moulder, Trent Reznor riesce a trovare un sound nuovo, potente e decadente allo stesso tempo, di dissonanza e di armonia, di rumore e di melodia. Industrial rock, techno, heavy metal – diversamente da quanto era avvenuto per il dance-oriented “Pretty Hate Machine” – si fondono in un tessuto di un’omogeneità quasi perfetta, paradossalmente avviluppata alle sue architetture strambe, dissonanti, sferragliate. E suona ancora oggi incredibile come una così profonda impresa porti con sé sia l’espressione più alta della maturità artistica di un musicista, sia un successo strepitoso di pubblico. Più di cinque milioni di copie vendute nel mondo confermano quello è che è stato il successo di questa (ormai) pietra miliare. Muovendosi tra coordinate riconducibili ad album essenziali come “Low” di David Bowie e “The Wall” dei Pink Floyd, Reznor prosegue anche il discorso portato avanti dall’EP precedente, “Broken”, soprattutto riferendosi ad uno dei brani chiave di quel lavoro, “Happiness In Slavery”, il cui immaginario prospettava quasi un seguito concettuale. Umanità e nichilismo, melodia e rumore si fondono in una dicotomia quasi perfetta, una sorta di contrasto petrarchesco. Se si decide di azzardare paragoni letterari è però d’obbligo il parallelismo con “Les Fleurs Du Mal” di Charles Baudelaire, dove attraverso strade, bordelli, paradisi artificiali, spiritualità divina e satanica, amore e ribellione si cercava la fine, disvelatrice del mistero e del nuovo. E cos’è questa calata in questa spirale discendente se non la ricerca baudelarian-decadente ‘Au fond de l’inconnu’? In “Closer” si legge: ‘through every forest, above the trees / within my stomach, scraped off my knees / I drink the honey inside your hive / you are the reason I stay alive’. E in “Reptile”: ‘she spreads herself wide open to let the insects in / she leaves a trail of honey to show me where she’s been /she has the blood of reptile just underneath her skin / seeds from a thousand others drip down from within’. Riferimenti imprescindibili a questa opera che racchiudeva, profeticamente, la fine del secolo XIX. E come non citare il concetto nietzschiano di esistenzialismo in “Heresy”: ‘God is dead / and no one cares / if there is a hell / I’ll see you there’. Un disco che bisogna ascoltare dall’inizio alla fine, che pretende questo dall’ascoltatore. Eppure molti dei brani, seppur decontestualizzati, riescono a brillare di luce propria: il singolo “Closer” ne è forse l’esempio più lampante; “Piggy” e “The Becoming” sono diventati brani obbligati in sede live; ma l’album tutto è un concentrato di perle, di momenti in cui piangere, ballare, sbattere la testa. Non solo è un concept album, ma anche una raccolta di momenti di profonda ispirazione lirico-musicale. Il groove di “Eraser” è da antologia, l’intro synth di “Heresy” è la summa degli anni Novanta, “A Warm Place” è vera e propria musica classica, “March Of The Pigs” è la rappresentazione musicale del cannibalismo del mondo. “Hurt” dice tutto quello che dovete sapere su quanto la vita può togliervi – parole, queste, di Stephen King. Molto di Palahniuk è sorto da questo disco. Molto di James O’Barr e del suo “The Crow” nascono da qui. Molto e molto altro ancora è stato partorito da questo lavoro. Come già sottolineato, certamente questo album e la sua tracklist aprono un mondo di dibattiti, discussioni, pareri, preferenze, universi aperti, collegamenti a musiche, letterature, pitture. Reznor non solo si è buttato in questo abisso, ma forse ne ha vista anche la fine. Ed è riuscito a rappresentarla.
“Hélas! Tout est abîme”, diceva Charles Baudelaire. Tutto è abisso.