7.5
- Band: NORMA JEAN
- Durata: 00:54:00
- Disponibile dal: 12/08/2022
- Etichetta:
- Solid State Records
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Il moniker ‘Norma Jean’ ha sempre significato ricerca e libertà in un mondo, quello del metal-core, da più parti inteso come uno scenario cinto da paletti invalicabili, all’interno del quale standardizzazione dei contenuti e appiattimento della personalità – oltre alle classiche ambizioni da classifica – non possono mai venire meno. Anche durante i cosiddetti anni del boom, quando bastava piazzare un breakdown o riciclare un paio di riff e melodie da “Slaughter of the Soul” per vendere un centinaio di migliaia di copie, la formazione della Georgia non ha smesso di andare dritta per la propria strada, muovendosi in una dimensione inquieta e approcciando il genere come un calderone nel quale far confluire una gamma di umori e soluzioni dal taglio ora aggressivo e nervoso, ora elegiaco e misurato, raccogliendo (quantomeno in Europa) molto meno rispetto a quanto seminato in carriera e al valore effettivo della proposta, sospesa fra hardcore/metal ‘evoluto’ e rivoli sudisti (country, southern rock, ecc.).
Un percorso di difficile inquadramento, quindi, che ha visto la band mutare più volte pelle (sia in termini stilistici, sia di line-up) e che oggi, dopo l’exploit di “All Hail” e la relativa ricerca di un impatto a tratti incontenibile, giunge all’ennesimo crocevia ricco di sorprese e colpi di scena. Sotto questo punto di vista, la scelta di identificare l’opener come un momento ben preciso sulla linea del tempo e della vita risulta quanto mai azzeccata: “1994” diventa infatti l’introduzione al disco più rock e sanguigno del sestetto; il punto di incontro/scontro fra il tipico suono à la Norma Jean, riassunto in precedenza, e le suggestioni alternative/grunge degli anni Novanta, con spunti mutuati da Alice in Chains e White Zombie, Deftones e Smashing Pumpkins ad affiorare come immagini pastose sullo schermo di un vecchio televisore sintonizzato su MTV.
Un accrocco indigesto? La mercificazione artistica di una band intenzionata ad ampliare il suo bacino di pubblico? Nulla di tutto questo. Perché se è vero che, sulla carta, un episodio come il singolo “Spearmint Revolt” potrebbe sembrare una marchetta nei confronti di un certo tipo di audience, specialmente americana, è solo sulla carta che – appunto – l’insieme non funziona. Nei fatti, abbiamo una nuova riprova della capacità dei Nostri di attraversare uno spettro musicale ampissimo senza sacrificare nulla a livello di ricercatezza e profondità, con un lavoro enorme in sede di arrangiamento, un riffing poderoso e – soprattutto – un cantante in grado di fare davvero la differenza e di fungere da faro per noi e per l’apparato strumentale dei compagni. Muovendosi come sempre fra urlato, pulito e decine di sfumature intermedie, Cory Brandon dimostra di essere uno dei migliori interpreti della sua generazione, in una performance ruggente e viscerale che ben si sposa al contenuto dei brani e al mood novantiano della tracklist, la quale, così com’era stato per “All Hail”, ha il pregio di crescere nel tempo e di svelare di volta in volta nuovi dettagli e giochi di stratificazione (complice la solita produzione mostruosa).
E poco importa se, rispetto alla suddetta opera del 2019, “Deathrattle Sing for Me” non presenta delle mega-hit del calibro di “Landslide Defeater” o “Careen”: dal primo all’ultimo minuto, si respirano comunque freschezza, passione e quella vena anarchica e menefreghista che, già vent’anni fa, erano presenti sotto altre vesti sul seminale “Bless the Martyr and Kiss the Child”. Un album vivo e pulsante, quindi, che insieme alla sua copertina funge da perfetta istantanea dell’estate e delle sue emozioni spesso contrastanti.