
8.0
- Band: NORTT
- Durata: 00:46:24
- Disponibile dal: 04/04/2025
- Etichetta:
- Avantgarde Music
Spotify:
Apple Music:
Nortt ci ha abituato da tempo a farsi attendere, nel tornare tra noi dalla sua catacomba. Così come ci ha abituati alla prospettiva di essere annichiliti all’ascolto di un suo nuovo lavoro, ed effettivamente “Dødssang” non delude: è una vera canzone di morte, parafrasando il titolo, un viaggio in musica di pura sofferenza, per quanto declinato in otto capitoli.
Già da tempo la componente black della sua proposta musicale è diventata una sensazione, uno scheletro d’intenti su cui fioriscono – o marciscono, per meglio dire – escrescenze funeral doom asfissianti e insieme sublimi e, sempre più, agghiaccianti passaggi dark ambient; queste due componenti, ormai, si intersecano senza soluzione di continuità, grazie al ricorso a riff talmente deformati da sembrare spesso campioni sonori, una batteria al limite del collasso cardiocircolatorio e tastiere che, quando non interpretano il ruolo di voci soliste – o usate come ieratiche intro dei brani – diventano punteggiature quasi improvvise, ma fondamentali per dipingere questi quadri di puro decadimento. O ancora, ecco che diventano l’accompagnamento di vere e proprie marce funebri, in grado di trascinarci sotto terra (“Alt Er Tomhed”).
Come d’abitudine, quando compaiono linee vocali, sono suoni strazianti e straziati, che Nortt costruisce usando ogni possibile registro del dolore umano: il risultato sono poesie sotterranee che mettono i brividi e avviluppano in un gorgo malinconico. Pioggia e nebbia, lutti e depressione, monocromie al rallentatore, vecchi racconti gotici… Da un certo punto in poi l’ascolto del disco diventa una pura sequenza di sensazioni evocate con forza, e forse la vividezza quasi visiva di certi passaggi è l’unica salvezza possibile; di fronte a certi brani, ci si può solo ripetere che sono dei piccoli film in musica, che non si sta vivendo realmente quello che trasmettono. O nessuna salvezza emotiva sarebbe possibile: resta solo una solitudine (“Ensomhed”, come da brano omonimo) ineluttabile e disperata.
Un parallelo che ci ha colti, come impatto emotivo, è con certi lavori di Mauro Berchi e dei suoi Canaan, e scusate se è poco; manca purtroppo qualcosa per un’oscura perfezione, per esempio in certi eccessivi richiami nella costruzione di un paio di brani, ma la ricerca di un perverso dinamismo si sente, e decisamente si tratta di un ascolto che non può lasciare indifferenti.