6.5
- Band: OBSCURE INFINITY
- Durata: 00:41:57
- Disponibile dal: 16/01/2015
- Etichetta:
- F.D.A. Records
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Gli Obscure Infinity passano alla sempre più nota F.D.A. Rekotz, ma la sostanza della loro proposta ovviamente non cambia. Entrati nel roster di una etichetta che in tempi recenti è diventata uno dei primi punti di riferimento per tutti gli appassionati di old school death metal, i cinque tedeschi, giustamente, non fanno altro che insistere su quanto hanno sempre fatto, offrendo un nuovo album che in tutto – dai suoni alla copertina – ricorda gli anni Novanta death e death-black metal. La band in carriera non ha mai provato a mescolare più di tanto le carte, optando al contrario per un sound del tutto regolamentato, che sia fan che ascoltatori occasionali non potranno fare a meno di inserire all’istante nei filoni più tradizionali. Gli unici tentativi di diversificazione emergono da una chitarra solista particolarmente intraprendente e “virtuosa”, che quasi sempre riesce a regalare al brano un buon assolo, ma, per il resto, gli Obscure Infinity puntano tutto sull’impatto, mescolando tracce di primi Death con un massiccio bagaglio di scuola scandinava che chiama in causa quasi sempre Dissection e Necrophobic. Come al solito, l’intento del quintetto pare essere quello di sposare una base e una sostanza death con velleità epicheggianti mutuate in particolare dalla Svezia luciferina di una ventina d’anni fa; il frutto di questo “matrimonio” sono canzoni dalle strutture mai troppo ovvie, nelle quali i chitarristi duellano incessantemente cercando di mettere in mostra tutta la loro gamma di influenze. Si sprecano i break melodici, gli ornamenti acustici e anche qualche tecnicismo che vorrebbe ricordare Chuck Schuldiner, il tutto però in una formula che quasi sempre finisce per prediligere velocità e toni arrembanti piuttosto che trame ad ampio respiro. L’impressione, alla fine dei conti, è che gli Obscure Infinity siano una realtà tutto sommato capace, ma che non è mai ispirata tanto quanto i vari maestri o certi coetanei oggi particolarmente in vista; i Nostri tendono spesso a mettere troppa carne al fuoco e qua e là si perdono in pezzi che vivono più di momenti che di solidi principi dai quali fa piacere ritornare per un nuovo ascolto. “Perpetual Descending into Nothingness” si rivela quindi un’opera buona nella forma ma un po’ incostante nei contenuti: non si lambiscono mai livelli scadenti, ma al disco mancano le “hit” o brani davvero in grado di farsi ricordare. Ai tanti completisti là fuori forse ciò andrà bene lo stesso, ma per chi è più selettivo il consiglio è quello di orientarsi su altro.