7.5
- Band: OBSIDIAN KINGDOM
- Durata: 47:30
- Disponibile dal: 25/09/2020
- Etichetta:
- Season Of Mist
- Distributore: Audioglobe
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Tenere testa ad un album come “A Year With No Summer” del 2016 è una cosa assai ardua, anche e soprattutto per una band che non proviene dai ‘grandi giri’ del genere, e nemmeno si ritrova (purtroppo o per fortuna) sotto i grandi riflettori. Eppure i catalani Obsidian Kingdom riescono ancora una volta – lo diciamo a scanso di equivoci – a fornire una grande prova di tecnica, spessore e carattere.
“Meat Machine” è un album diverso dal precedente: molto più heavy, distorto e violento, è un album che non si lascia afferrare subito per la sua affabilità immediata, non accoglie con le buone maniere, ma che si riserba di offrirsi pian piano, in ogni sua sfaccettatura più sottile, subdola, nascosta. Già con la opener “The Edge” non si capisce bene dove il lato della band di Rider G Omega andrà a sfociare questa volta, perché, oltre agli scream aggressivi di un certo sludge dalle tinte prog appare anche una tendenza suadente, romantica, malinconica, spesso – nel corso del disco – esemplificata dalla voce della Jade Riot Cul (già, nome simpatico). Quella tendenza che era poi quella che aveva maggiormente contraddistinto il cuore di “A Year With No Summer”. Con “The Pump” i toni permangono quelli oppressivi e incombenti, che giocano su un refrain solido, ma senza annoiare, come spesso accade nei prodotti post-metal che si innestano (e troppo spesso arenano) sui pattern di genere, ma è con “Naked Politics” che la luce della band riesce ad aprirsi alle maggiori influenze rock, regalando una prospettiva più ampia a questa macchina di carne che è il corpo umano, sfaccettato e bramoso di altro da sé. Ancora di più, se l’arricchimento arriva a toccare i toni di “Vogue”, forse una delle più efficaci del disco, per poi sfociare in un finale di percorso tanto riassuntivo quanto parimenti aggiuntivo (nella vera e propria altalena della voce femminile) con l’accoppiata “Womb Of Fire”/”A Woe”. L’essere umano, sembra dirci “Meat Machine”, è una macchina complessa, tanto antica quanto ancora capace di non essere in pace con lo spirito, con l’altro, con se stessa.
La personalità sperimentale della band è ancora uno dei punti a favore di questa intrigante realtà spagnola metallara e sempre colta, che riesce a farsi spazio tra i cloni e le fotocopie di genere, imponendosi come creativa e autentica al punto giusto per poter destare ancora interesse significativo. Non è certo semplice, però, affacciarsi a “Meat Machine” aspettandosi un seguito del precedente disco, perché si è colpiti da una maggiore violenza espressiva tutta post-metal che probabilmente non ci si aspettava in maniera così preponderante. I numerosi ascolti – come detto poco fa – fanno però guadagnare a pezzi come “Mr Pan”, “Spanker” e “Meat Star” un tono fascinoso che matura col tempo, come un distillato di qualità, permettendo un alto tasso di riascoltabilità. “Melt the heart/ To distil the soul” si sente infatti nelle linee di apertura del terzo pezzo del disco, come se gli Obsidian Kingom si trovassero a seguire le orme di certi Pain Of Salvation della prima ondata di carriera: quella fortunosa e fortunata dei “Perfect Element pt.1”. Liberi e capaci di dire, i compagni di Rider G Omega (dietro a cui si nasconde il talentuoso mastermind Merigò) si affacciano ad una visione artistica che affonda le sue radici nella letteratura e in compendi extramusicali, ma che diventano humus per la musica stessa, non dimentica di essere la cosa principale. Forse, sì, “Meat Machine” non ha quel cuore pulsante romantico di “A Year With No Summer”, ma proprio per questo si offre come un tassello diverso e creativo di quel puzzle in fieri che è la discografia degli Obsidian Kingdom.
Band come quella di Merigò sono difficili da trovare in questi antri del post-metal e della musica progressive, almeno quelli che hanno dalla loro i Black Sabbath, i Nine Inch Nails e i Rush tra i germi più fruttuosi. Gli innesti electro amplificano il panorama centrale post-metal, e si affievoliscono in tonalità rock moderne che si mischiano nelle retrovie, ma senza rubare spazio alle distorsioni, che qui hanno uno spazio maggiore che in passato. Le partiture sghembe, i timbri à la Mastodon e le trovate compositive sono di certo emblematiche e risultano benzina che alimenta i tre quarti d’ora di “Meat Machine”, che scorre se non proprio facilmente, almeno in maniera piuttosto omogenea fino alla fine. Questa difficoltà, però, è il buco nero dove si può – e si deve – cercare la bellezza del nuovo lavoro degli spagnoli. Forse non brillando eccessivamente, qui, ma dimostrandosi ancora come una vera band da tenere d’occhio.
“A body is just a body
And a body is just a frame
Echoes of a blank space
To be filled with your pain”