7.5
- Band: OCEANS OF SLUMBER
- Durata: 01:04:59
- Disponibile dal: 02/03/2018
- Etichetta:
- Century Media Records
- Distributore: Sony
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A due anni esatti dal secondo album “Winter”, che ne aveva segnato l’ingresso nella scena metal che conta, dopo un primo disco autoprodotto passato totalmente inosservato, gli Oceans Of Slumber si ripresentano sul mercato, giocando ancora una volta su un suono poliedrico e la vocalità carismatica di Cammie Gilbert. “Winter” metteva in fila idee estrose, limate da furbizie buone per il metal da classifica e puntate metalcore non sempre collimanti con il resto della narrazione; “The Banished Heart” alza il tiro, mostrando un’evoluzione coerente a quanto prodotto in precedenza e un’umoralità nelle intenzioni che rende dapprima difficoltoso, quindi avvincente, l’ascolto del disco nel suo complesso. Infatti, un’opener quale “The Decay Of Disregard” non è esattamente il brano chewing-gum che ci si potrebbe attendere da un combo avente in dote una cantante così impattante e capace di linee vocali calde e seduttive; stretta fra doom, gothic nerissimo e accelerazioni ipertecniche che potrebbero quasi avvicinare il quintetto a una forma semplificata di blackened death, la prima traccia pencola fra istintività, riflessione, malessere, apertura a un’epica rabbia e chiusura in se stessi. Una dettagliata espressione di malinconia e tragica sofferenza imperniata su una voce che sa ricorrere alla leggiadria per scandagliare stati d’animo negativi e complicati da descrivere in poche parole. Una sensazione di oppressione e tetra magnificenza scaturente anche dalla seguente “Fleeting Vigilance”; nessun ricorso a facili refrain e melodie di immediata lettura, piuttosto le chitarre ribassate e i liquidi assoli complottano per dare ermetismo e costruire roccaforti di dolore attorno all’inquieto protagonismo della Gilbert. Le folate dell’assai dotato batterista Dobber Beverly inondano di una brutalità terrificante gli stacchi più urgenti, che si fanno particolarmente incisivi in “At Dawn”. Tralasciando gli interventi in growl della voce maschile, elemento distonico in “Winter” e anche a questo giro poco gradevoli nell’insieme, stiamo parlando di un’altra canzone riuscita e che non abusa di appesantimenti, nonostante si approssimi ai nove minuti. La titletrack fa entrare in scena l’anima intimista del gruppo, in questo abile ad agire di sottrazione e a dilatare il suo essere avvolgente e progressivo in arie eteree, dove il piano diventa centrale e dialoga compìto con la voce, lasciando fuori campo tutto il resto. “Etiolation” denota un reiterato ascolto dei Nevermore, ricordati nel fragore e torbidezza delle ritmiche chitarristiche, come nella presenza di timide schiarite in corrispondenza dei rallentamenti. “A Path To Broken Stars” accavalla con impeccabile gusto estetico setosità nella voce e marosità strumentali, fluttuando in cataclismi da tsunami, incastri djent, cambi di tempo repentini con una leggerezza propria di chi sa esattamente cosa vuole dalla sua musica e lo sa mettere in pratica perfettamente. Quando la luce si fa soffusa e i lamenti diventano quelli di una crooner d’altri tempi – oggi magnificamente rievocati da uno stuolo di talentuose singer, ricordiamolo – una distensione onirica ancheggia nella psiche, instillando un dolce torpore, preferibilmente spazzato via da una scarica di batteria torrenziale: è il caso dell’ottima, concisa, “Howl Of The Rougarou”. Al bilanciato duetto con Tom Englund nella drammatica “No Color, No Light” il compito di un ultimo, toccante, sussulto, nel quale gli Oceans Of Slumber mettono i panni di qualche dolente compagine nordica, trovatasi solo per sbaglio dall’altro lato dell’Oceano Atlantico. Ghiaccio, grigiore, lacrime e conforto stillano poco per volta, confermandoci che al terzo album la compagine di Houston ha trovato la sua dimensione ideale.