7.0
- Band: OCEANS OF SLUMBER
- Durata: 00:59:58
- Disponibile dal: 04/03/2016
- Etichetta:
- Century Media Records
- Distributore: Universal
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Quasi dal nulla, alle spalle solo un album autoprodotto, “Aetherial” (2013), giungono alla corte della Century Media gli Oceans Of Slumber. Storia particolare la loro, che nella natia Houston hanno sperimentato in lungo e in largo fin dai primi mesi di attività, abbracciando prog, jazz, doom, black, classic metal, pop, all’interno di canzoni vaste e umorali, segnate indelebilmente dalla forte personalità della voce di Cammie Gilbert (non presente nell’esordio). Una poliedricità di ampissimo respiro, quella del gruppo americano, capace di segnalarsi già in questo secondo album per il coraggio, la visionarietà e il desiderio di cavalcare uno stile tutto suo, il più possibile lontano da clichè e abitudini consolidate. Ai primi ascolti, a dire il vero, passerebbe l’impressione di una certa, malcelata, ruffianeria: sarà la presenza della (riuscita) cover di “Nights In White Satin” dei The Moody Blues, saranno i gorgheggiare insistiti della Gilbert, sarà la patina di ampollosità ricoprente melodie spesso molto dolci e ricamate per perdurare nelle vostre teste, oppure la sensazione di inafferrabilità di fondo. Fatto sta che l’insieme sembra sfilacciarsi e sbriciolarsi, il filo logico si perde in una serie di spaccati eterei scritti con puntiglio ma poca concretezza. Mettendosi d’impegno nello scoprire quali siano le reali qualità di “Winter”, ci accorgiamo che alcuni indizi rilevati sono vere prove, altri assumono a un’analisi più attenta la connotazione di pregi. Perché gli Oceans Of Slumber agiscono striscianti, quasi mai offrendosi nudi e crudi in una versione affabile e diretta, più spesso si nascondono in lunghe spire di suono affusolato e intangibile, patinato ma potente, delizioso eppure gravido di una rabbia saettante sottotraccia, pronta a scattare fuori all’improvviso. Difficile inquadrare in paragoni credibili il disco, sospeso com’è fra mondi anche molto distanti gli uni dagli altri. C’è sicuramente la presenza del gothic/doom femmineo cavalcato con successo da molti act negli Anni ‘90, ma se dovessimo rispondervi esattamente a chi somiglino di questa corrente gli Oceans Of Slumber, non sapremmo davvero cosa rispondervi! Allo stesso tempo, si guarda all’avantgarde nordico o al progressive, sempre inteso nella sua accezione scandinava di band come i primi Pain Of Salvation, per quanto pure in questo caso sia difficile trovare un’assonanza così marcata con altre realtà in circolazione. Scoviamo molta psichedelia e una sensibilità da compositori di colonne sonore, associate a un’indole crepuscolare che va a permeare i momenti migliori del lavoro, quelli dove l’introspezione prende una piega autorevole e le modulazioni della Gilbert, talentuosa voce nera, possono erompere in tutta la loro freschezza e candore. Mentre crediamo siano un po’ forzati, fuori contesto e poco funzionali all’insieme gli sprazzi extreme metal guidati dal growl sgraziato del chitarrista Sean Gary, che spostano pericolosamente l’attenzione su modernismi di basso profilo, fuori fase rispetto all’impostazione molto misurata del grosso dell’album. Il traccheggiare in dialoghi semi-acustici ricorda addirittura gli Opeth, anche se gli Oceans Of Slumber appaiono sempre sfuggenti, mai sazi di aver imposto un certo andamento, desiderosi di ribaltare il mood generale di un pezzo e farlo scattare in tutt’altra direzione. Lo spettro vocale della Gilbert copre abilmente anche i momenti di minore ispirazione, le sue evoluzioni fra soul, folk, jazz, pop sofisticato sono la vera delizia del lavoro, nel quale il resto della band fa il suo ma rimane ogni tanto un po’ troppo in secondo piano, non si capisce bene se incapace di reggere il passo dell’esuberante cantante, oppure timorosa di soffocarla con uscite strumentali travalicanti il suo estro. Fatto sta che in tutte le tredici tracce si respira un’aria di pregevolezza estatica, di soffice opulenza sensoriale, senza che gli Oceans Of Slumber riescano a compiere il definitivo salto di qualità e scrivere canzoni perfette dall’inizio alla fine. Manca un minimo di sintesi, non sempre l’ensemble sa sfruttare appieno il talento della singer e la lascia quindi sola, a destreggiarsi su linee ai limiti del canto a cappella, quando magari un contorno strumentale più ricco potrebbe rendere adrenalinico un determinato brano, che invece si propaga calmo e delicato fino alla sua conclusione. Ci sono ancora piccole ombre per i texani, imperfezioni sostanziali che necessitano di un’attenta operazione di revisione in previsione delle prossime mosse discografiche. “Winter”, presentato da un magnifico artwork surreale di Costin Chioreanu, promette in ogni caso di darvi discrete emozioni e potrebbe essere il primo passo di una carriera da prim’attori nei reami del metal più sperimentale. Staremo a vedere.