7.0
- Band: OFFICIUM TRISTE
- Durata: 00:56:02
- Disponibile dal: 13/12/2019
- Etichetta:
- Transcending Obscurity
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Sono ancora una band piena di voglia e passione, gli Officium Triste, anche se Pim Blankenstein e compagni non sono più dei ragazzini. Gli anni di carriera per loro sono ormai venticinque, ma il numero potrebbe persino salire se venisse preso in considerazione anche il periodo sotto il moniker Reincremated. Fu il passaggio alla denominazione attuale che significò anche l’inizio delle cose fatte sul serio per il gruppo olandese, ormai un’istituzione dell’underground death-doom europeo.
Davanti al nuovo “The Death of Gaia”, che arriva tra noi a sei anni dal precedente “Mors Viri”, si può più che mai affermare che il cuore di questi musicisti sia rimasto negli anni Novanta: passa il tempo, ma lo stile degli Officium Triste rimane legato a una formula assolutamente tradizionale di death-doom metal dalle dolenti venature gotiche, con riferimenti chiarissimi che rispondono al nome di My Dying Bride e Paradise Lost (per non scomodare band coetanee come Saturnus, Morgion, primi Celestial Season e Orphanage). La proposta a questo punto potrebbe iniziare a mostrare segni di logoramento, tuttavia il lungo lasso di tempo trascorso dall’ultima pubblicazione ha giocato a favore della band, che ha evidentemente avuto modo di coltivare la propria ispirazione e di curare nei dettagli i brani. “The Death of Gaia”, pur non risultando dunque un’uscita capace di donare una nuova caratterizzazione o una rinnovata freschezza agli Officium Triste, riesce a imporsi all’attenzione di chi ascolta con una certa disinvoltura, facendo leva sui migliori trademark del gruppo e sul giusto compromesso tra pesantezza, teatralità e orecchiabilità. Pochi, in effetti, i momenti davvero stucchevoli (certi passaggi ‘puliti’ di “Like A Flower in the Desert” o di “Losing Ground”), per fortuna schiacciati da una formula che privilegia un growling deciso e un lavoro di chitarra sobrio e agile a vocalizzi e tessiture di tastiera che, se mal gestiti, avrebbero potuto rievocare certe pacchianate tutte pizzi e merletti in auge oltre vent’anni fa.
La sensazione è insomma che il nuovo album del sestetto sia un’opera démodé ma elegante, di quelle composte con passione e dignità da una band che ha dedicato tutta la propria carriera ad un suono specifico. Una prova corale genuina, che sicuramente troverà il sostegno dei fan di lunga data, così come di coloro che amano scavare nel sottobosco di questo particolare filone.