6.5
- Band: OPERATION: MINDCRIME
- Durata: 01:05:18
- Disponibile dal: 23/09/2016
- Etichetta:
- Frontiers
- Distributore: Frontiers
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Da quando la sua avventura nei Queensrÿche è terminata Geoff Tate è diventato oggetto di strali di ogni tipo, manco avesse commesso chissà quale peccato capitale lasciando il metal propriamente detto e inoltrandosi in forme rock più soft e alternative. Nessuno vuole vietare le critiche, anche veementi, sull’operato di un musicista che non è più sicuramente nel pieno del suo fulgore creativo, ma il livore spesso riscontrato nei confronti degli Operation: Mindcrime, la nuova incarnazione di quello che è stato uno singer più importanti nella storia dell’heavy metal tutto, ci pare francamente eccessivo. “The Key”, l’esordio del 2015, non sarà un capolavoro, ciò nonostante rappresenta un dignitoso affresco di rock malinconico e introspezioni sofisticate, secondo una mescolanza stilistica rimembrante, in tono minore, la densità intellettuale dei due “Operation: Mindcrime”, di “Empire” e “Promised Land”. Per il capitolo di mezzo di questa nuova trilogia architettata dal singer di Seattle, la sua band – rimpolpata di una lunga serie di ospiti di lusso – accantona buona parte delle sperimentazioni che avevano funestato molti dei lavori degli anni 2000 a firma Queensrÿche, arrivando a concepire una tracklist magari un po’ prolissa ma che, a conti fatti, offre una delle migliori prove di Tate negli ultimi vent’anni. Per apprezzare i contenuti di “Resurrection”, è bene chiarirlo, bisogna dimenticarsi una volta per tutte l’animosità da dio del metal degli anni ’80, un fantasma che tormenta ancora molti dei fan del Tate giovane e rampante, incapaci di accettare la deriva verso il rock intimista del loro beniamino. Per costoro, chiaramente, l’album rappresenta l’ennesimo chiodo sulla bara di un personaggio e un’epoca ormai solo oggetto di struggenti ricordi; per chi è di più ampie vedute, il discorso cambia. “Resurrection” vive di toni crepuscolari e blandi momenti dolceamari, nei quali la chitarra è spesso sostituita nel suo ruolo di guida dei brani da tastiere molto ottantiane e un’effettistica dal sapore fantascientifico, ottima nel dare spessore e caratterizzazione alle canzoni senza indulgere in eccessi o pacchianerie. Tate canta in modo molto misurato, oltre a non avere più la leggendaria estensione giovanile ora non ama proprio quel tipo di linee vocali irruente che ne avevano decretato le fortune decenni addietro. Il decantare pieno di sentimento di oggi è quello dell’uomo maturo, riflessivo, che interpreta accorato e un po’ disilluso una musica tenue, ancora ascrivibile al metal ma in una forma diluita e aperta a un’ariosità pop e al rock melodico più contaminato. Fa anche la sua ricomparsa il sax, capace di donare un’eleganza vellutata in selezionati frangenti, mentre le chitarre producono vera potenza soltanto a piccole dosi. Quando osano qualche partitura più impattante della media, escono fuori combinazioni interessanti, come nel caso della grintosa “Taking On The World” (gradevoli nell’occasione le comparsate di Tim Owens e Blaze Bayley), ma si tratta di variazioni sul tema principale, non una strada percorsa fino in fondo. La smaccata linearità, il dipanarsi circolare e rilassato di ogni pezzo, possono far arricciare il naso, anche se fortunatamente ci pensano arrangiamenti minimali e di buon gusto a compensare l’assenza di imprevedibilità ed energia di quasi tutto l’album. Nell’afflato spirituale di una “Invincible”, una delle tracce meglio concepite, possiamo ancora apprezzare un cantante che non ha paura di mettere a nudo la propria anima e di mostrarci il suo animo tormentato. Manca continuità, è vero, oltre che la capacità di mettere fine ai pezzi in tempi ragionevoli. Il finale burrascoso di “A Smear Campaign”, con le tastiere a duellare in una sarabanda di freddi assoli, fa capire che ci sono margini per andare oltre a quello che, a tratti, suona un buon compitino e nulla più, puntando magari a un fraseggiare metallico più sostenuto. Le contraddizioni in seno al progetto ci sono, forse non saranno mai risolte del tutto, però “Resurrection” contiene buona musica e, dato non di poco conto, ha i tratti del disco onesto, vero, vissuto. Geoff Tate, anche sotto questa veste meno accattivante, merita un briciolo di fiducia.