8.0
- Band: OPETH
- Durata: 01:07:15
- Disponibile dal: //2001
- Etichetta:
- Music For Nations
- Distributore: Audioglobe
Gli Opeth sono un simbolo. Un simbolo di evoluzione stilistica che, partito sulla lunga distanza con quel seminale “Orchid”, e giunto dopo lavori eccellenti come “My Arms, Your Hearse” e “Still Life” ad un traguardo che ogni volta si rinnova al suo completamento, riesce tuttora a lasciar ravvisare nei tratti sfumati ed evanescenti di “Blackwater Park” le stesse premesse artistiche che mossero i primi e coraggiosissimi passi. Intendiamoci: riuscire ad evolvere il proprio stile, mescolandovi nuovi elementi e nuove sonorità per lo più aliene dal sound precedentemente sviluppato, non è semplice, perché, come tutti sappiamo fin troppo bene, molto spesso appaiono inconciliabili le linee del tempo che precedono o susseguono un cambiamento; ma a ben vedere, rimane ancor più difficile riuscire a trasformare lentamente il proprio tocco senza che l’ascoltatore riesca a captarlo a primo acchitto, inserendovi poco a poco nuove sfumature e chiaroscuri che contribuiscono a cambiare da dentro la musica, ma che la lasciano apparentemente immutata nell’aspetto. Ascoltando infatti i primi lavori della band di Mikael Akerfeldt, non è infatti impossibile trovare un ponte con gli episodi più recenti apprezzati in questo “Blackwater Park”, sebbene sia facile comprendere come gli Opeth del 2001 siano una creatura sensibilmente mutata nel profondo, e che ha lasciato solo l’apparenza formalmente intatta. Da “Blackwater Park” avrete infatti lo stesso connubio di vocals acide e malinconiche che già negli Opeth di “Morningrise” era possibile riconoscere, così come avrete i break acustici, le parti progressive e quel tocco di malinconia che da sempre accompagna la band autrice di piccoli capolavori come “April Etheral” e “Demon Of The Fall”; a costituire una novità vera e propria nel sound dei ‘nuovi’ Opeth, è una certa ricerca musicale che ora guarda con molta più frequenza agli anni settanta, come è facilmente ravvisabile dal riffing che in più di un’occasione si sporca di note blues e fraseggi che portano alla memoria nomi di tre decadi fa come Pink Floyd (come nella rilassata e post-darksideiana “Harvest” o nell’intro di “The Drapery Falls”) e King Crimson (la parte iniziale di “Bleak” e molte, molte altre citazioni dal periodo più jazzy e rilassato della band britannica). Ma aldilà di tutte le speculazioni in cui potremmo tranquillamente imbatterci, negli Opeth di “Blackwater Park” rimane ancora vivissima la capacità di ammaliare e rapire l’ascoltatore con trame ed ambientazioni a dir poco uniche, e che nelle nuove “The Leper Affinity”, “The Funeral Portrait”, “Dirge For November” e la stessa title-track tornano di nuovo a fare la vera parte del leone, creando appunto un sottile filo conduttore con quanto fatto in passato, e che ora più che mai sembra assolutamente imprescindibile dal presente. Oltre ad aver composto una pietra miliare nella propria carriera, gli Opeth con “Blackwater Park” hanno aggiunto un tassello inedito nel fitto mosaico della musica d’avanguardia: chissà, se da oggi, tutto il resto suonerà diverso.