8.0
- Band: OPETH
- Durata: 00:43:21
- Disponibile dal: 22/04/2003
- Etichetta:
- Music For Nations
- Distributore: Audioglobe
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Per una volta ritengo sia giusto iniziare con il tentativo di giustificare il voto molto alto dato all’ultima release del combo svedese, giustificazione doverosa in quanto “Damnation”, dal lato strettamente musicale e compositivo, non dice nulla di nuovo in ambito rock (chiariamo questo concetto: il lavoro in questione non ha nulla a che vedere con i lidi hard). Ragionando in prospettiva futura, però, questo disco apparentemente bizzarro (e a quanto pare destinato a rimanere un episodio isolato in casa Opeth) potrebbe inaugurare un territorio di ricerca assolutamente inedito e rivoluzionario per il metal. Nei suoi periodi di magra il carrozzone della musica dura (case discografiche e musicisti) ha creduto di individuare l’ancora di salvezza aprendosi a commistioni sonore a volte imbarazzanti, a volte appena passabili, spacciandole come farina del proprio sacco e generando ibridi assolutamente improponibili a base di rap, funky, orchestrazioni di maniera e loop elettronici a iosa. Questo melting-pot, che a memoria di recensore ha consacrato (meritatamente) giganti quali Living Colour, Jane’s Addiction e Faith No More, non ha quasi mai riguardato il prog-rock settantiano, escludendo alcuni gioielli troppo in anticipo sui tempi, quali i Voivod di “Nothing Face” e “The Outer Limits” e il Devin Townsend in versione Ocean Machine. “Damnation” sceglie di percorrere questo sentiero assai rischioso, e che il termine di paragone vada ricercato nei territori angusti di un progressive-rock crepuscolare è un dato evidente, per cui ritengo sia molto più interessante osservare come gli Opeth siano riusciti a metabolizzare determinate sonorità, facendole convivere felicemente con il loro background musicale. Il nuovo verbo di Mikael Akerfeldt coniuga High Tide, i Floyd di “A Saucerful Of Secrets”, e i Porcupine Tree più asettici (quelli di “The Sky Moves Sideways”), il tutto sotto l’accorta regia di Steve Wilson, mente dei Porcupine Tree, e qui impegnato anche al mellotron. Nei suoi 43 minuti risicati, le otto tracce sembrano essere un’unica lunghissima song, cristallizzate nella (voluta) incapacità di emergere l’una sull’altra. Una staticità che conserva il magico dono di ipnotizzare l’ascoltatore e di cullarlo con un impatto nichilistico al calor bianco, e mai la tristezza e l’implosione emotiva degli Opeth ha scelto parole e suoni così dolci. Otto piccoli ritratti per palati raffinati: “Windowpane” mostra il lato più ispirato dei nuovi Opeth, fra arpeggi suadenti, pigri innesti di mellotron e assoli incredibilmente ispirati. Emerge prepotentemente il tocco quasi ‘jazzato’ di Martin Lopez in “In My Time Of Need”, mentre i fantasmi dei King Crimson di “Red” gridano forte nella successiva “Death Whispered A Lullaby”, prima del respiro avvolgente di “Closure” cui le accordature aperte conferiscono un andamento ipnotico. L’ultimo sussulto lo regala lo strumentale “Ending Credits”, poesia allo stato puro, prima della chiusura zeppeliniana (modello “No Quarter”) di “Weakness”, drammatico connubio di vocals filtrate e tastiera.