8.0
- Band: OPETH
- Durata: 01:06:51
- Disponibile dal: 30/08/2005
- Etichetta:
- Roadrunner Records
- Distributore: Universal
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Veniamo subito al dunque: gli Opeth sono tornati e lo hanno fatto alla grande, ovvero riavvicinandosi al loro classico stile, scrivendo una manciata di composizioni ottime e disintegrando quindi il banalissimo e monocorde “Deliverance”, quanto di peggio da loro prodotto in più di dieci anni di onorata carriera! “Ghost Reveries” è, al contrario, un album veramente curato e godibile, nel quale è possibile trovare tutti i trademark del tipico Opeth sound – dai continui cambi di tempo e di registro sino ad arrivare all’attitudine estremamente progressiva e ricercata – più un paio di piccole novità, che si configurano in un utilizzo lievemente più massiccio delle tastiere (non a caso oggi fa parte della band anche il tastierista Per Wiberg) e in una maggior orecchiabilità delle linee vocali ‘pulite’, entrambi elementi mutuati, con tutta probabilità, dalla recente parentesi acustica “Damnation”. Il tutto non sarà magari qualcosa di assolutamente sconvolgente ed innovativo – in fin dei conti lo scheletro della proposta dei nostri è rimasto tale e quale a quello che tutti già conoscevano – però è indubbio che il risultato finale sia – come dicevamo – assai piacevole ed ispirato: Mikael Akerfeldt si è infatti per fortuna ricordato di essere stato sino o poco tempo fa un grande songwriter e ha sfoderato di nuovo tutta la sua creatività e la sua esperienza, donandoci brani tecnici ed articolati come una volta, forti di sezioni acustiche/sognanti di una bellezza straordinaria e di malvagi assalti death metal calibrati alla perfezione. Inutile poi dire che la produzione sia qualcosa di superlativo e che l’artwork – pur essendo un tantino più canonico del solito – sia perfettamente calzante con quanto offertoci con gli strumenti: gli Opeth non hanno QUASI mai lasciato nulla al caso e anche questa volta si sono confermati una formazione altamente professionale sotto ogni punto di vista. Citare i brani più significativi è, almeno per chi scrive, cosa assai difficile, visto che il disco è valido nella sua interezza, però se il sottoscritto dovesse proprio elencare i momenti più esaltanti allora direbbe di sicuro la magnifica “The Baying Of The Hounds” – una canzone complessissima e squisitamente evocativa che non avrebbe per nulla sfigurato in uno qualsiasi dei capolavori di inizio carriera – e “The Grand Conjuration”, brano che a passaggi particolarmente ariosi alterna i break più tetri e minacciosi dell’intero lavoro. Perciò pare essere finita la (per fortuna, brevissima) era dei riff alla Morbid Angel ripetuti senza soste per tre minuti di fila o degli stacchi acustici inseriti tanto per fare… gli Opeth hanno riacquistato lo smalto e l’ispirazione di un tempo e questa volta ci hanno donato musica violenta, melodica e progressiva nella loro miglior tradizione; materiale nuovamente degno di essere accostato ad un moniker tanto importante e prestigioso. Bentornati!