7.5
- Band: OPETH
- Durata: 00:52:38
- Disponibile dal: //1998
- Etichetta:
- Candlelight
- Distributore: Audioglobe
Una pioggia lieve ma continua introduce l’ascoltatore al cospetto di “My Arms, Your Hearse”, il primo lavoro del nuovo corso della band. E, pur essendo assolutamente 100% Opeth, il disco sembra quasi scritto da un’altra formazione: innanzitutto, cambia lo studio di registrazione…e i Fredman Studios di Fredrik Nordstrom sono ciò che, al tempo, offriva di meglio l’Europa in campo metal estremo. La produzione è quindi corposa e spessa, con la fresca batteria di Martin Lopez a dare potenza e tiro ai brani e le chitarre di Mikael e Peter fluide e dense, in grado di passare da momenti di pura violenza a spezzoni vicini alla psichedelia; al basso è subentrato Martin Mendez, ma è lo stesso Åkerfeldt ad occuparsi della messa su nastro delle linee della quattro corde, in quanto la new entry non è ancora preparata quel che serve. Oltre al professionale cambio di recording studio, va detto che “My Arms, Your Hearse” segna l’abbandono, da parte degli Opeth, di quella genuina attitudine folk che aveva contraddistinto i platter antecedenti; cambia notevolmente, in linea di massima, il riffing e, se un termine di paragone può essere usato, la band inserisce alcune soluzioni chitarristiche di matrice Katatonia, meno immediate e più complesse. E basti ascoltare “April Ethereal” per rendersi conto, anche a livello quantitativo, di come la band abbia deciso di variare approccio in merito agli intermezzi acustici: di meno ma più ad effetto. Mikael comincia a sfoderare un growl più lugubre e catacombale, adattissimo al potente suono del disco, così come pure alle tematiche, sicuramente avvincenti ed interessanti. Siamo di fronte, infatti, ad un concept-album abbastanza complesso, la cui (unica) divertente caratteristica è quella di avere l’ultima parola del testo di un brano corrispondente al titolo del pezzo successivo; per il resto, la storia è tanto affascinante quanto inquietante, epopea metafisica di un morto che, prima di venir accolto definitivamente tra le braccia dei reami della Morte, vaga come fantasma nel tentativo di re-instaurare un rapporto con la straziata dolce metà. In un tripudio di visioni, spiriti, susseguirsi di stagioni, sguardi sinistri, stupori e spaventi, “When”, “Demon Of The Fall” e “Karma” si ergono a composizioni migliori del lavoro, senza però considerare la stupenda “Credence”, traccia acustica dall’atmosfera calda ed avvolgente ma triste e struggente come Pierrot (ci permettano i Novembre il piccolo riferimento). Ottima la chiusura strumentale di “Epilogue”, con un prezioso Hammond a fare da sottofondo alla conclusione delle ostilità. Un disco bello, breve (solo cinquantadue minuti, per gli Opeth è un evento!), vario e transitorio. Il sottoscritto lo giudica, forse a torto, l’anello debole della discografia della band, riconoscendo comunque il valore di un album il cui vero punto di forza è l’immaginario mistico-visivo che lo svolgersi del concept fa passare in rassegna. Terminati i doveri sotto casa Candlelight, la band si appresta ad esordire, in breve tempo, su Peaceville…