OPETH – Pale Communion

Pubblicato il 18/08/2014 da
voto
6.5
  • Band: OPETH
  • Durata: 00:55:40
  • Disponibile dal: 26/08/2014
  • Etichetta:
  • Roadrunner Records
  • Distributore: Warner Bros

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La Sfida dell’Anno, per chi scrive, è redigere una recensione assolutamente obiettiva del nuovo album degli Opeth, l’atteso – ma sicuramente meno atteso del precedente “Heritage” – undicesimo lavoro in studio “Pale Communion”. Bisognerebbe partire anzitutto da delle premesse personali, di gusti soggettivi relativi all’operato della band svedese in passato: siccome non vogliamo stimolare noia alla lettura, più di quanta non ne crei l’ascolto stesso del disco in questione, cerchiamo di farvela breve dicendovi che il sottoscritto ha amato alla (quasi) follia gli Opeth fino a “Watershed” compreso, prediligendo però addirittura, in un’ipotetica classifica di apprezzamento, capolavori underground quali i primissimi “Morningrise” e “Orchid”; “Heritage”? Ok, nulla di eccezionale, un disco carino e ascoltabile di prog-rock. Scritto ciò e terminata la fase ‘patti chiari, amicizia lunga’, passiamo a “Pale Communion”…anzi no! Prima vediamo se ci riesce di entrare un attimo nella testa di quel personaggio super-egocentrico e logorroico che risponde al nome di Mikael Akerfeldt: ha il pregio assoluto di essere un vero cultore e appassionato di rock progressivo, dai Seventies in avanti (ma soprattutto Seventies), e crediamo che la sua collezione contenga rarità di ottimo livello; inoltre ha il pregio, da non sottovalutare, di essere coerente con se stesso nel voler creare in modo onesto la musica che gli va di creare, essendo disposto – ma ci pare il minimo – a subire pro e contro della situazione che di volta in volta deve affrontare per seguire la sua evoluzione (o involuzione, vedetela come vi pare) artistica. Bene. Ora, da questi concetti semplici si evince che, in questi ultimi anni, Akerfeldt abbia espresso una dannatissima voglia di portare gli Opeth ad un livello che, incredibilmente, è sia superiore che inferiore al precedente: il suo intestardirsi con il progressive-rock porta lui e i suoi silenti compari sul piedistallo dorato della musica raffinata e di classe, ma, allo stesso tempo, li fa precipitare in un crepaccio senza fondo dove originalità e innovazione sono state dimenticate fra i resti del guard-rail sfondato. “Pale Communion”, ovviamente, farà storcere il naso a tutti coloro che amano i primi Opeth e anche quelli che li hanno scoperti, prima, con l’exploit commerciale di “Blackwater Park” oppure, poi, con il primo album targato Roadrunner, “Ghost Reveries”; e chiaramente avrà vita difficile nel procacciarsi nuovi fan in campo rock progressivo, in quanto i capolavori primevi del genere sono stati scritti ormai quarant’anni fa ed è davvero dura, se non impossibile, ergersi in qualità fin su quelle vette. Questa Pallida Comunione, difatti, pur essendo suonato, prodotto e anche interpretato in modo sapiente e piacevole, persiste nell’impressione, innata già in “Heritage”, di non andare letteralmente da nessuna parte e di stare prolungando l’agonia di un complesso – gli Opeth tutti, non solo Akerfeldt – in balia di una mente fin troppo sprezzante del pericolo. Perché è evidente che con gli svedesi non ci si trova di fronte al processo evolutivo graduale e passo-passo che ha portato, ad esempio, gli Anathema dal doom-death metal all’electro-rock introspettivo; con il quintetto di Stoccolma, invece, siamo semplicemente di fronte alla scelta radicale di troncarsi in due all’improvviso, tranciando la carne ed il vigore death metal per sempre, lasciandolo marcire in cantina, per buttarsi nella penombra mistica e rivelatrice della meditazione prog-rock anni ’70. E se “Heritage”, da non considerare un album di transizione (in quanto pubblicato a transizione già avvenuta), si trattava del disco della ancora immatura svolta, troviamo, in tutta sincerità, che “Pale Communion” sia un pelino più centrato e coinvolgente; ma anche che, contemporaneamente, abbia più alti e bassi, che presi assieme risultano disorientanti per chi lo fruisce. Andiamo a braccio, dunque. Come non lasciarsi portare via – eddai sì! – dal brano strumentale “Goblin”, lampante e psichedelico tributo ai nostrani Goblin, forse l’unica traccia che si lascia apprezzare completamente dall’inizio alla fine? Il singolo “Cusp Of Eternity” non è male, con chitarre che, a memoria, non sentivamo così ‘pesanti’ dai tempi di “Watershed” e, appunto, da qui la scelta di usarlo come brano apripista del lavoro, per dare l’impressione di un lievissimo back-to-the-roots. Grande spazio concesso alle keyboards, al mellotron e all’organo di Joakim Svalberg, che in parecchi episodi lascia Akerfeldt e Akesson nell’angolo dell’accompagnamento, giocando a passarsi il testimone principale con il groove caldo di Mendez e il discusso dinamismo del picchiatore Axenrot, a volte troppo esagitato e tentacolare su partiture che necessiterebbero di qualche colpo in meno. “Moon Above, Sun Below” è un altro buon capitolo (forse il migliore?), lungo ben undici minuti, che rivela una non perfettissima coesione di parti ma anche un buon gusto compositivo; cosa che non si può dire, al contrario, delle noiose “River” e “The Voice Of Treason”. Buona la chiusura affidata a “Faith In Others”, dove Mikael, nel suo delirio di voci pulite e tentativi di imbroccare tonalità giuste e linee vocali accattivanti, quasi quasi riesce a soddisfarci nell’ascolto. Insomma, ci sarebbe altro da dire sul ritorno sulle scene degli Opeth, sul loro percorso musicale e su come cambierà la setlist delle esibizioni dal vivo, e tutto ciò genererà in rete e nei Bar della Musica interattivi tante discussioni. Ma l’aspetto più importante che vogliamo mettere in risalto, alla fine di questa proditoria filippica, è che comunque la band scandinava si accolla sulle spalle ogni scelta compiuta e continua, dal 1990 ad oggi, a fare stolidamente di testa propria, nonostante i rischi, i pericoli, gli stress e gli insulti gratuiti che una tale coerenza si porta spesso dietro. E’ chiaro che, dovesse essere il prossimo disco un dietro-front verso il prog-death caratteristico della band, saremo allora i primi a rimangiarci le nostre parole e, probabilmente, a ridere di gusto un po’.

TRACKLIST

  1. Eternal Rains Will Come
  2. Cusp Of Eternity
  3. Moon Above, Sun Below
  4. Elysian Woes
  5. Goblin
  6. River
  7. Voice Of Treason
  8. Faith In Others
38 commenti
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