7.5
- Band: OPETH
- Durata: 00:56:35
- Disponibile dal: 30/09/2016
- Etichetta:
- Nuclear Blast
- Distributore: Warner Bros
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C’era una volta una band chiamata Opeth che, dalla seconda metà degli anni ’90, per almeno un decennio, ha illuminato la scena con una serie di capolavori entrati di diritto tra i pilastri senza tempo non solo di un genere, ma dell’intero panorama metallico. Per un certo periodo di tempo, gli Opeth sono stati dei leader indiscussi, ammirati, copiati, presi come punto di riferimento e stella polare per una infinità di band nate dopo di loro. Il padre-padrone Mikael Åkerfeldt, però, dopo essersi preso una sbandata epocale verso il progressive rock degli anni ’70, ha deciso che quella band sarebbe dovuta diventare altro e così ci ritroviamo oggi tra le mani quello che sarebbe il dodicesimo album in studio degli Opeth, ma che a conti fatti è il terzo tassello di una storia che è iniziata nel 2011 con la pubblicazione del discusso “Heritage”. Da allora la band è cambiata passando dall’essere leader a follower e non ne facciamo una questione di merito, è semplicemente un fatto oggettivo: Åkerfeldt non cerca nemmeno di nascondere il suo desiderio di comporre ispirandosi ai grandi maestri degli anni ’70. Nelle interviste fa nomi e cognomi: Jethro Tull, Family, Cream, Pink Floyd, Queen, Mahavishnu Orchestra, Caravan e potremmo andare avanti a lungo. Anche noi, quindi, cercheremo di valutare questo nuovo “Sorceress” evitando ogni paragone con il passato della band perché, citando un celebre passaggio di Pulp Fiction, “non è lo stesso fottuto campo da gioco, non è lo stesso campionato e non è nemmeno lo stesso sport”. Vediamo, quindi, cosa ha da offrirci questa nuova fatica degli Opeth, perché il singolo di apertura, “Sorceress”, ci aveva decisamente intrigati al momento dell’uscita: un pezzo mutevole, articolato nella sua introduzione e allo stesso tempo diretto e potente grazie al riff decisamente heavy che lo caratterizza. Melodico nella linea vocale, ma mai banale, si è presentato da subito come una delle cose migliori prodotte dagli Opeth negli ultimi anni. In effetti anche l’ascolto dell’album conferma quanto di buono si è sentito nell’anticipazione della title track: gli Opeth del 2016 sono molto più focalizzati e stanno forse imparando dai loro errori del recente passato. “Sorceress” non è una esibizione di quanto sia bravo, intelligente e musicalmente acculturato Åkerfeldt: “Sorceress” è un album di canzoni cangianti, molto diverse tra loro, ma allo stesso tempo coese e coerenti nel nuovo percorso artistico della band. Troviamo momenti di progressive rock classico d’alta scuola come “The Wilde Flowers”, con il suo ritornello avvolgente e quel tuffo nel vuoto dato dalla potentissima accelerazione in coda al brano; oppure “Strange Brew”, lunga e articolata composizione, forse l’unica occasione in cui la band si lascia andare un po’ all’autoindulgenza, mostrando la sua evidente maestria esecutiva. Altrettanto importanti sono gli episodi più delicati e soffusi dell’album: “Will O’ The Wisp”, ad esempio, nasce su ispirazione dei Jethro Tull (e si sente!), con le sue influenze folk che si uniscono a pregevolissimi passaggi solisti che ricordano le trame disegnate in “Windowpane”. Discorso simile si può fare anche per la delicata e minimale “Sorceress 2”, malinconica e sussurrata, che ricorda certe composizioni dei King Crimson nei primi anni ’70, come “Lady Of The Dancing Water”. Non mancano, comunque, momenti più energici e diretti, come “Era” oppure l’ottima “Chrysalis”, bellissimo episodio a cavallo tra l’hard rock e l’heavy che può vantare un pregevole duello tra chitarra e organo che avremmo potuto tranquillamente trovare in un live dei Deep Purple, riproposto da Ritchie Blackmore e Jon Lord. Ci avviamo quindi verso la fine di questo excursus nella nuova fatica degli Opeth, ma non possiamo concludere senza citare almeno altri due episodi: il primo, “A Fleeting Glance”, caratterizzato da una apertura assolutamente atipica con il clavicembalo e la voce di Åkerfeldt che ricorda addirittura certe soluzioni degli Yes (immaginate Jon Anderson mentre canta “Madrigal” e ditemi se non avrebbe tranquillamente potuto interpretare anche questo passaggio degli Opeth). Il brano poi muta pelle e torna evidente la mano dell’amico Steven Wilson e dei suoi Porcupine Tree, con movimenti che avremmo potuto tranquillamente ascoltare tra i solchi di “In Absentia”. Infine, non possiamo esimerci dal citare anche la (quasi) strumentale “The Seventh Sojourn”, uno degli highlight dell’album, così come lo era “Goblin” nel precedente “Pale Communion”. Anche in questo c’è una ispirazione direttissima, come lo era stato la band di Simonetti: questa volta si tratta di un brano dei Family, intitolato “Summer ’67”. Abbiamo a che fare con una magniloquente composizione arabeggiante, a la “Kashmir” per intenderci, con le percussioni e l’arrangiamento di archi curato di Will Malone a intrecciarsi fino alla chiusura, onirica e psichedelica, dove compare un brevissimo pezzo cantato. Nessun ritorno al passato, quindi. O forse dovremmo dire il contrario: è un ritorno al passato prima che gli Opeth esistessero, un passato dove non esisteva il death metal, il growl, nemmeno il metal in senso stretto. Un passato dove c’erano musicisti sognatori che raccontavano di re cremisi, giganti gentili, oche delle nevi, il respiro della locomotiva, guardiani dei cieli e mille altre storie che hanno conquistato e rapito definitivamente l’immaginario di Mikael Åkerfeldt.