9.0
- Band: OPETH
- Durata: 01:02:31
- Disponibile dal: //1999
- Etichetta:
- Peaceville
- Distributore: Venus
“Still Life”…ancora vita, di nuovo vita. Ma anche, in termini pittorici, natura morta. La Peaceville accoglie a braccia aperte gli Opeth ed il loro quarto volume, e come darle torto? Il disco qui trattato è una rara perla di classe, bellezza, furia e dolcezza, ammantata da riflessi purpurei e magenta, grondanti sangue da ogni pennellata sonora che, complice anche il primo, superbo artwork del maestro Travis Smith, fuoriesce dai solchi del dischetto. Finalmente in formazione standard, con anche Mendez pienamente attivo, Åkerfeldt e soci si dividono tra i Fredman Studios e i Maestro Musik, coadiuvati ovviamente da Fredrik Nordstrom per quel che riguarda la scelta dei suoni e la registrazione. La produzione, infatti, si migliora ulteriormente, riscaldandosi e divenendo più secca, con il basso tornato a svolgere un compito perlomeno personale, se non proprio a sé stante. “Still Life” riprende, per certi aspetti, le sonorità dei primi due album opethiani, ma le mischia mirabilmente con l’attitudine più possentemente death metal di “My Arms, Your Hearse”, generando così composizioni più che affascinanti e trasudando classe in maniera abbondante. Il “red album”, secondo chi scrive, è quello in cui le sezioni acustiche danno realmente la polvere alle parti metalliche; inoltre, alcune strofe vocali pulite di Mikael vanno quasi ad assumere le sembianze di ritornelli, orecchiabili e canticchiabili come sono: tutto ciò è benissimo riscontrabile all’ascolto delle prime tre composizioni del platter: l’opener “The Moor”, “Godhead’s Lament” – riuscite davvero a trattenere le lacrime durante lo spezzone acustico centrale, da brividi? – e la buia, strepitosa ballata “Benighted” sono tracce indimenticabili e fanno quasi passare in secondo piano il resto della musica, pur essendo anch’essa di livello superiore. Infatti, “Face Of Melinda”, la più moderna (almeno per qualche riff groovy) “Serenity Painted Death” e “White Cluster” sono altri pezzi verso i quali rimanere a bocca aperta, tale è la loro brillante alchimia. Sotto l’aspetto lirico, Åkerfeldt ci propone un altro concept, possibile seguito di quello presente in “My Arms, Your Hearse”, ma più probabilmente no: il cantante inizia ad usare un inglese particolarmente ricercato e l’utilizzo di termini particolari, elaborati e molto figurativi, se da un lato rende semplice comprendere singole descrizioni di scene, dall’altro il senso generale diventa sempre più nascosto e arduo da interpretare. A cavallo tra tematiche religiose e spirituali, storie mistiche e soprannaturali (un po’ alla Poe…e scusate il giochetto di parole), “Still Life” è un disco intriso di lirismo passionale e malato, sognante ma corroso dalla peste, ripugnante e delizioso…un viaggio in penombre d’odio e rigetto. L’album, giudicato con il senno di poi, risulta un po’ sottovalutato, all’interno della discografia Opeth, poco citato e latente all’ombra del successivo “Blackwater Park”, ma il giudizio che ne si ha è assolutamente positivo, anzi: siamo di fronte forse ad un Capolavoro, fatto, finito e con la C maiuscola! Ma a proposito di “Blackwater Park”…