8.0
- Band: OPETH
- Durata: 00:50:52
- Disponibile dal: 22/11/2024
- Etichetta:
- Reigning Phoenix Music
Spotify:
Apple Music non ancora disponibile
Quando gli Opeth hanno svelato il primo singolo di “The Last Will And Testament”, si è generato subito un notevole interesse perché, dopo tanto tempo passato ad esplorare i meandri del progressive rock degli anni Settanta, Mikael Åkerfeldt ha improvvisamente riscoperto, anche in studio, il gusto del growling.
Ci siamo chiesti se questo sarebbe stato il tanto atteso disco del ritorno alle origini, se gli Opeth sarebbero tornati a quello stile che per tanti anni li ha resi unici e che sembrava essere ormai appartenente al passato: la risposta a questi interrogativi, come sempre accade in questi casi, è più sfumata di un semplice sì o no.
L’ascolto di “The Last Will And Testament” certamente ci ha restituito una band che finalmente ha fatto pace con il suo passato, ritrovando un’energia ed un’immediatezza che nelle ultime uscite discografiche sembravano essere smarrite. Al tempo stesso, però, sarebbe un errore aspettarsi la stessa band che ha composto dischi fondamentali come “Blackwater Park” o “Still Life”. Il percorso iniziato con “Heritage” non si è interrotto, ma prosegue attraverso una strada diversa: il gusto per il prog rock è rimasto immutato in Mikael e “The Last Will And Testament” rappresenta da questo punto di vista il risultato di una ricerca musicale e stilistica di livello altissimo. La vera novità, a conti fatti, è che finalmente gli Opeth sembrano aver trovato quel punto di equilibrio fra ciò che erano e ciò che vogliono essere oggi.
“The Last Will And Testament” è un disco cupo, oscuro e raffinato, che ritrova il gusto di narrare storie misteriose, attraverso un concept album estremamente curato anche dal punto di vista letterario.
La storia – una sorta di dramma familiare a tinte gotiche che si disvela poco a poco in seguito alla morte di un patriarca dal passato oscuro e all’apertura del suo testamento – si sviluppa attraverso sette tracce, intitolate semplicemente come i numeri di altrettanti paragrafi.
In queste prime sette canzoni, la band mette in musica tutta la sua incredibile capacità di strumentisti ed arrangiatori. Già i due singoli presentati, “§1” e “§3”, sono esemplari di quello che l’ascoltatore potrà trovare all’interno dell’album, eppure ancora una volta diventa impresa ardua riuscire a descrivere l’atmosfera di queste canzoni, tanto sono ricche di stratificazioni, dettagli e piani di lettura.
Così “§2” trova una nota inedita nella seconda voce di Joey Tempest degli Europe, mentre “§4” tocca uno degli apici del disco in un dialogo tra le chitarre e il flauto traverso di Ian Anderson; il leader dei Jethro Tull, qui presente anche in veste di narratore, si piega in maniera inaspettata alle esigenze dell’album, sostituendo il suo stile irruente con melodie più avvolgenti e sinistre, che si sposano perfettamente con l’atmosfera del brano. Non meno interessante anche “§5”, che recupera delle atmosfere mediorientali, con gli archi ad appoggiarsi su un tappeto ritmico di percussioni, prima di un’esplosione di furia elettrica davvero molto vicina agli Opeth del passato.
A proposito degli archi, vale la pena sottolineare come il disco sia stato punteggiato da interventi orchestrali, suonati da un vero ensemble, che aggiungono un ulteriore tocco di eleganza e che ci auguriamo possano essere sfruttati nuovamente anche in futuro.
Siamo ormai ben oltre la metà dell’album, e ci imbattiamo prima in “§6”, uno scintillante esempio di prog metal come non se ne sentiva da anni nella discografia degli Opeth, e poi “§7”, la cui struttura fortemente narrativa è l’ideale per chiudere la lettura del testamento.
Non è finito invece il nostro viaggio, perché Åkerfeldt e compagni ci regalano un’ultima perla: “A Story Never Told” è una ballad malinconica e suadente che ci riporta direttamente a quel capolavoro di “Damnation”: l’eccellente uso del pianoforte, così come le trame di chitarra, disegnano una conclusione perfetta per il disco. Una conclusione che si discosta dal sound generale – a partire dal titolo – diventando una sorta di commento finale all’intera vicenda.
Inutile, quasi, soffermarsi sulla qualità strumentale dell’album – semplicemente stellare – ma ci teniamo a citare comunque il lavoro egregio fatto dal batterista Walter Vayrynen, artefice di una prova maiuscola, che senza dubbio ha contribuito a recuperare quell’energia ultimamente appannata.
“The Last Will And Testament”, dunque, non è esattamente il lavoro che riporta gli Opeth alle origini. Di fatto, si tratta di un disco che potrà essere apprezzato al meglio non tanto da chi ha abbandonato la band dopo “Watershed”, quanto piuttosto da chi, come chi scrive, ha continuato a trovare nella loro proposta spunti di interesse, pur riconoscendo la superiorità della prima fase della loro carriera.
È un compromesso, ne siamo consapevoli, eppure dopo tanti anni di attesa, è davvero il meglio che potevamo legittimamente aspettarci.