7.0
- Band: ORANGE GOBLIN
- Durata: 00:49:21
- Disponibile dal: 13/01/2012
- Etichetta:
- Candlelight
- Distributore: Audioglobe
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Stanchi dei soliti prodotti stantii ed iperconfezionati? Bisognosi di una sana sferzata di rock senza tempo? Bramosi di una sana e consapevole ignoranza? Bene, gli Orange Goblin sono tornati per soddisfare tutti voi! I londinesi, dopo una pausa di riflessione durata cinque anni, ritornano sul mercato orfani di Pete OMalley, ma agguerriti come non mai. Nel nuovo “A Eulogy For The Damned” vengono recuperate istanze più stoner rock rispetto agli ultimi lavori decisamente più pesanti; qui la linearità e l’efficacia del rock vengono a galla in maniera compiuta e convinta, sostenuti da un songwriting di primissimo ordine che rifugge dalle banalità, pur basandosi completamente su dei cliché vecchi come il mondo. In fondo, la forza degli Orange Goblin è sempre stata questa: miscelare in maniera esplosiva rock, stoner, doom e svisate southern blues da antologia, il tutto senza mai nascondere una forte vena melodica sotterrata sotto tonnellate di watt. A dire il vero, questo ultimo lavoro è decisamente meglio riuscito degli ultimi tre o quattro album dei rocker britannici, proprio perché il baricentro è stato spostato in favore di sonorità più redneck. Già l’opening track “Red Tide Rising” fa saltare dalla sedia con la propria carica anthemica ed il proprio chitarrismo dinamico e dannatamente stonato! Con la successiva “Stand For Something” i Nostri si inventano il punto di incontro tra i Nashville Pussy ed il blues, con la voce sgraziata di Ben Ward a rincorrere quella di Blaine Cartwright. I ritmi si imbastardiscono in “Acid Trial”, mid tempo piuttosto roccioso guidato da un riffone assolutamente rock and roll; “The Filthy And The Few” è puro rock motorheadiano, mentre “Save Me From Myslef” richiama alla mente le atmosfere agresti dell’Alabama. Londra viene rievocata giocoforza in “The Fog”, dove il doom metal si alterna con lo stoner rock, così come succede anche in “Death Of Aquarius” e nella conclusiva title track, che a queste due componenti aggiunge anche un certo retrogusto bluesy che lo rende un brano decisamente migliore rispetto ai due citati poc’anzi. “Return To Mars” e “The Bishop Wolf”, pur essendo inferiori al resto della tracklist, presentano dei tempi medio-alti di tutto rispetto e le parti soliste della sei corde di Joe Hoare sconfinano fino ad arrivare in inediti territori psycobilly. Non c’è null’altro da dire, se non che gli Orange Goblin si confermano buoni compositori e che con la loro musica il rischio di annoiarsi è quasi sempre ridotto ai minimi termini. Bentornati.