7.0
- Band: ORANGE GOBLIN
- Durata: 00:40:34
- Disponibile dal: 15/06/2018
- Etichetta:
- Candlelight
- Distributore: Audioglobe
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Siamo alle soglie della doppia cifra, quanto a dischi pubblicati, per gli Orange Goblin, che non sembrano però mai perdere la voglia di divertire (e divertirsi); magari senza picchi di creatività, ma con qualità sempre elevata. Ben Ward e soci non si perdono in fronzoli, e così “Sons Of Salem” si apre ricordando più che vagamente il giro di batteria iniziale di “Where Eagles Dare” degli Iron Maiden, ma trasformandosi immediatamente in un brano ritmatissimo e dotato di una certa grezza grazia, nella miglior tradizione della band; che infila poi, con la titletrack, un pezzo più cupo e intimista, sorretto dal duetto tra la cavalcata del basso e i quattro quarti d’ordinanza della batteria e forte di una linea vocale che conquista, ritornello compreso. L’album prende nel seguito la forma di un ben riuscito incrocio tra le diverse anime della band; “Renegade” e “Ghosts Of The Primitive” riprendono a meraviglia le cadenze e l’acidità accattivante da blues attraverso il tempo (per parafrasare uno dei loro lavori più iconici), intervallate però dalla doommeggiante “Swords Of Fire”, in cui il cantato sembra quasi una lisergica invocazione, ben in linea con l’atmosfera cupa evocata dall’overdrive di chitarra – e si muove su cadenze simili, più avanti nel lavoro, anche la fumosa “Burn The Ships”. Spezza poi in due l’album la breve strumentale “In Bocca Al Lupo”, che oltre a farci sorridere per l’omaggio (ai numerosi amici italiani di Ben? Chissà) spinge la dimensione più stonata verso lidi degni degli Hawkwind – pur senza eccedere in effetti o, sia mai, tastiere. Tra sfuriate alle soglie del NYHC e un basso potente, marcio e devastante come fu quello di Lemmy, “Suicide Division” sembra invitarci a tenerci stretti ai braccioli e a far andare la testa su e giù in maniera parossistica, ma nel seguito la band londinese si riattesta sui mid-temp: “The Stranger” quasi stupisce rispetto ai loro ultimi lavori ad alto contenuto heavy, visto che fa pensare senza mezzi termini al southern rock a stelle strisce, e anche la conclusiva “Zeitgeist” decisamente più personale e ariosa sceglie di non spingere sull’acceleratore, quanto sulla classe esecutiva. Riuscendoci appieno.