8.5
- Band: ORANGE GOBLIN
- Durata: 00:53:59
- Disponibile dal: 1998
- Etichetta:
- Rise Above Records
Alcuni dischi sono belli proprio nella loro genuina, ruvida semplicità: l’opera seconda degli Orange Goblin, “Time Travelling Blues”, è esattamente quello – un concentrato di attitudine stradaiola, psicotropia, fantascienza vintage e allucinazioni.
Uscito nel 1998 per la Rise Above di Lee Dorrian – i cui Cathedral, nello stesso anno, rilasciavano “Caravan Beyond Redemption”, per dire – il disco prosegue nel solco tracciato da “Frequencies From Planet Ten” appena un anno prima, quello che parte dall’incrocio tra Hawkwind, Motorhead, gli stessi Cathedral, Black Sabbath, Kyuss, Saint Vitus, una spruzzata di Sleep tanto per gradire e poi parte per una tangente nuova, in cui ciascuna di queste influenze risulta di volta in volta riconoscibile nel fraseggio caldo e ipnotico delle chitarre a cura del duo Hoare/O’Malley, nei pattern scostumati di batteria, nel timbro vocale insieme lercio, vagamente sguaiato ma avvolgente di Ben Ward.
Nove brani, quasi un’ora di musica: tanto basta agli inglesi per colorare di psichedelico gli ultimi anni del ventesimo secolo, imprimendo il proprio personalissimo marchio di fabbrica sulla maturazione dello stoner metal così come lo conosciamo oggi: nel loro caso, senza troppo zolfo in mezzo ai piedi e con qualche litro d’alcol in più, mantenendo una ‘luminosa’ energia di fondo capace di renderli praticamente irresistibili, e facendo inconsapevolmente scuola a tutta una serie di formazioni in fieri o immediatamente future (da Witchcraft a gente come Red Fang o Orchid).
Il rombo scoppiettante di una motocicletta come quella ritratta in copertina, seguito dalla batteria cadenzata di Chris Turner e l’adorabile pulsare ritmico del basso di Martyn Millard, apre le danze con l’immortale “Blue Snow” (un nome, un programma): gli Orange Goblin non perdono tempo in convenevoli, non è proprio nelle loro corde, provvedendo a scaraventare l’ascoltatore in una dimensione storta il giusto per apprezzare come gli anni Settanta più onirici si mescolino con la strafottenza del rock’n’roll da strada (“Shine” è un esempio mirabile in questo senso), il tutto stando comodamente seduto sul divano di uno scantinato puzzolente di birra rancida e fumo, ma in viaggio contemporaneamente su trip lunari – c’è ancora chi deve tornare indietro da lì dopo aver sentito “Solarisphere” la prima volta, o vertebre del collo che aspettano di essere rimontate dopo un passaggio di quel piccolo gioiellino di “Snail Hook”, ma è proprio nel costruire momenti simili che risiede (leggermente mutata dal passare del tempo, ma ancora senza ruggine) l’abilità dei nostri.
A differenza dell’esordio – pure bellissimo – in questo lavoro i cinque britannici asciugano maggiormente la propria componente prettamente settantiana, ingrassando il suono e l’attitudine con uno strato di riff heavy che passa tanto per la breve strumentale “Diesel (Phunt)” (paradigmatica, in questo senso) quanto per “Lunarville 7, Airlock 32”, quattro mirabili minuti e mezzo in apnea con lo stesso refrain che si ripete, velocizza, rallenta, si dilata e si contrae in rapida velocità, diventando impossibile da scollarsi di dosso.
Certo, il blues desertico rimane nelle atmosfere collose di “Nuclear Guru” e soprattutto nella traccia eponima del disco, messa in chiusura per dare il coup de grace (quello musicale arriverà solo quattro anni più tardi): quell’andamento indolente da strade al tramonto e vento in faccia, cullati dalle note del pianoforte, è non solo a parere di chi scrive il momento migliore del disco, ma anche uno spaccato su un genere – lo stoner metal, appunto – che ha nel proprio DNA una malleabilità estrema, qui inscindibilmente legata all’amore per Lemmy e soci; esso filtra colloso dalle casse, sprigionando la propria ruvidissima potenza e stregando a suon di “We own the sun, we own the sky/We own tomorrow and we wanna fly“.
Sicuramente “Time Travelling Blues” non ha sconquassato il mondo della musica metal alterandone in maniera irreversibile il corso ma, con il suo suono unico, unto di grasso da motore e lurido di sabbia del deserto, ha tratteggiato una strada verso nuovi, rozzissimi, mondi acidi. Al giorno d’oggi, è ancora lì, invitante e più trafficata che mai.