7.5
- Band: ORDEN OGAN
- Durata: 00:54:45
- Disponibile dal: 26/10/2012
- Etichetta:
- AFM Records
- Distributore: Audioglobe
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E alla fine ce l’hanno fatta. Gli Orden Ogan al quarto disco toccano finalmente i tasti giusti, dosando nella maniera corretta influenze e ingredienti del loro già complesso sound, riuscendo ad ottenere un risultato omogeneo e compatto, una musica esaltante dalla prima all’ultima nota, finalmente slegata dall’ombra dei modelli cui la band si ispirava negli album fino al precedente “Easton Hope”. Certo, troviamo ancora Blind Guardian (quelli epici), Gamma Ray (quelli centrali) e Running Wild (quelli più veloci e pirateschi) nelle undici tracce che compongono questo full length, ma ognuna di queste canzoni adesso ha in più, oltre alle influenze delle band citate, un inconfondibile marchio Orden Ogan, una sorta di ‘firma’ posta sul songwriting altrui che mostra che la lezione delle menzionate band non è stata solo studiata, ma anche appresa, assimilata e trasformata in qualcosa di nuovo. Con la consapevolezza di questa nuova, esaltante, identità, il cantante Seb Levermann insieme ai due compari rimasti della line–up di “Easton Hope” si concentra in maniera approfondita proprio sul songwriting, componendo una serie di episodi sempre interessanti, dediti ad utilizzare con sapienza melodie vocali mai scontate e splendide armonizzazioni di chitarra, che guardano finalmente senza invidia addirittura alle soluzioni chitarristiche della coppia Olbricht/Siepen. L’incipit del disco è davvero dei migliori, con la gloriosa “In The End” a seguire la breve intro runningwildiana “The Frozen Few”: lo scrosciante riffing trash dell’opener, appoggiato su una furiosa base di batteria sullo stile del maestro Thomen Stauch, ci parlano di in un pezzo cangiante e multiforme, che ricorda ancora una volta i bardi di Krefeld nel suo bellissimo ritornello ma che pesca liberamente anche da altri generi, e risulta dotato di una struttura sorprendente, davvero per nulla scontata e poco predicibile. Un brano che sorprende davvero! Ancora i Blind Guardian firmano, anche se solo in parte, la successiva “The Things We Believe In”, influenzata dai suoni della band teutonica solamente nel cantato e non nella più quadrata base ritmica. “Land Of The Dead” non rinuncia invece ad una più alta tensione a livello strumentale, ma ci presenta per contrasto uno squarcio di forte orecchiabilità nel suo melodico ritornello. In questo brano il power tedesco sfuma più che altro nel sinfonico, con alcuni inserti folkeggianti che possono riportarci alla mente i nostri Elvenking. Altro pezzo da novanta è la successiva “The Ice Kings”, bella ballad dal sapore medievale ed ipnotica nell’incedere, mentre debitrice di Piet Sielk e degli Iron Savior risulta essere la sesta traccia “Till The Star’s Cry Out”, mazzata power che ci scassa la colonna vertebrale al ritmo di un headbanging che non può non riportare alla mente proprio i ritmi elevati dell’omonimo debutto della band un tempo capitanata da Kai Hansen. La seconda parte del disco continua su registri similari, alternando scorribande più pesanti a brani power più melodici e ancora ad epici mid-tempo, in cui l’unico punto fisso è quello di mantenere sempre altissima l’importanza che cori e arrangiamenti rivestono nell’economia dei vari pezzi. Oramai la maturità gli Orden Ogan l’hanno raggiunta, e il cordone ombelicale risulta definitivamente mozzato. Ora la band di Seb Levermann non è più solo una risposta alla musica dei Blind Guardian ma piuttosto un’entità definita, che segue binari che, anche se sono vicini o addirittura paralleli a quelli delle band ispiratrici, non sono più sovrapposti. Bel risultato.