8.5
- Band: ORPHANED LAND
- Durata: 00:58:37
- Disponibile dal: 18/07/1996
- Etichetta:
- Holy Records
- Distributore: Audioglobe
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Prima di sorprendere praticamente tutta la comunità metallica, nel 2004, con l’acclamata release di “Mabool”, album che li fece conoscere al di fuori del sottobosco delle etichette medio-piccole; prima di confermarsi ad ottimi livelli qualitativi e commerciali con l’atteso successore “The Never Ending Way Of ORwarriOR”, datato 2010 e avente in Steven Wilson un bel braccio destro; prima di definitivamente conquistare schiere di fedeli fan, oltretutto di diverse etnie e credenze religiose, con l’ultimo, discutibile “All Is One” (2013); prima di trovarsi una line-up quasi completamente rivoluzionata ed avente nel cantante Kobi Farhi e nel bassista Uri Zelcha, fra l’altro proprio i due membri fondatori, gli unici filacci di legame con il passato remoto della loro carriera; prima di tutto ciò – arriviamo a concludere questa farraginosa premessa – gli israeliani Orphaned Land sono stati una splendida e semi-sconosciuta gemma dell’underground più sperimentale dei Nineties, scovata all’epoca dalla lungimirante etichetta francese Holy Records (Septic Flesh, Nightfall, On Thorns I Lay, Elend, Natron e ovviamente Misanthrope tra le sue notevoli scoperte). Dopo il bruciante esordio “Sahara”, ormai risalente a ben ventidue anni fa (1994), con il quale i Nostri si erano aperti un minimo di strada nell’amplissimo filone death metal dell’epoca, fors’anche per l’appeal generato dalla non comunissima nazione di provenienza, due anni dopo è la volta di concedere il bis con il-qui-scelto-per-essere-Bellissimo “El Norra Alila”, album giocato, come spesso ha fatto e fa la Terra Orfana, sulla contrapposizione degli opposti Bene/Male, Buio/Luce, Dio/Diavolo: il titolo, infatti, trova composizione nell’unione di ‘El Nor’ e ‘Ra Alila’ – rispettivamente ‘Dio della Luce’ e ‘il Male Notturno’ in ebraico. “El Norra Alila” conferma, amplifica e tonifica le sonorità impostate dalla band in “Sahara”, già assolutamente peculiari nel riuscire a fondere in maniera originale ed innovativa il death metal progressivo e melodico alla musica folk medio-orientale, non solo proveniente dalle terre d’Israele, ma anche abbracciante il mondo arabo e la moltitudine di popoli, canti e ritmiche nati nell’allargato circondario di Penisola Arabica e, appunto, Medio Oriente. E se è realmente difficile scegliere quale, tra i due primi dischi degli israeliani, sia il più avvincente, noi comunque preferiamo puntare i fari sul secondo full-length, più maturo, curato e alla pari coinvolgente. Kobi e Uri sono affiancati dai compagni storici, i chitarristi Yossi Sasi (solista) e Matti Svatizky (ritmica) e dal batterista Sami Bachar, mentre molteplici sono i musicisti che danno il loro contributo alla realizzazione del platter attraverso performance ai vari strumenti tipici (e non) utilizzati in sede di registrazione: da menzionare, Itzick Levi alle tastiere, Felix Mizrahi e Sivan Zelikoff al violino, Avi Agababa ai diversi tamburi etnici, Yariv Malka al shofar e ai campionamenti, Abraham Salman al kanun e poi i vocalist David e Hadas Sasi; da citare, infine, Alon Miaznikov, co-writer dei testi assieme al vocalist ufficiale degli Orphaned Land. “El Norra Alila” esce in un momento in cui le commistioni tra folk e metallo estremo hanno cominciato a prendere piede in Europa (da una parte gli Skyclad iniziano ad inserire sempre più cospicue parti di violino all’interno del loro thrash metal albionico; dall’altra, in Scandinavia, il pagan-viking comincia ad assurgere a livelli di una certa importanza) e non solo, in quanto proprio nello stesso anno, il 1996, viene pubblicato infatti anche uno dei migliori lavori folk-metal di sempre, ovvero “Roots” dei brasiliani Sepultura. Stiamo scherzando, direte voi. E invece non stiamo scherzando neanche un po’, anzi, troviamo diversi punti di contatto tra l’album spezza-carriera dei carioca ed “El Norra Alila”: l’approccio totale alla sperimentazione dei suoni della propria terra, l’uso preponderante di percussioni praticamente in ogni dove, l’importanza del messaggio lirico-musicale che le due band hanno voluto imprimere in questi due loro lavori monstre. Gli Orphaned Land, dunque, impostano una tracklist assolutamente varia ed imprevedibile, che alterna brani progressive-folk-death metal a brevi pezzi strumentali, ad episodi completamente folkish e a tracce che evadono con naturalezza dalla forma-canzone per entrare quasi in ambito ritualistico, seguendo atmosfere sognanti e malinconiche che vengono rese alla perfezione da una ricerca melodica e strumentistica eccezionale. Si parte dunque con “Find Your Self, Discover God”, canzone non immediatissima e piuttosto ostica, primo grande esempio di costruzione progressiva all’israeliana, con voci estremamente cangianti e continui cambi di tempo; segue “Like Fire To Water”, uno degli highlight del platter, dal tiro coinvolgente e ‘orecchiabile’; ma è con il seguente trittico, eseguito senza interruzione di sorta, che la band si supera: “The Truth Within” si dipana tra sentieri Panterosi, un riffing fluido e progressivo chiaramente ispirato a melodie medio-orientali ed intermezzi di percussioni da far spellare le mani; “The Path Ahead” segue a ruota, incessante vortice di soluzioni vincenti che sfocia infine in “A Neverending Way”, chiosa acustica e dolcissima di una decina di minuti inarrivabili. Ci si quieta pochi attimi con “Takasim”, assolo di violino dal sapore folcloristico, per poi ripartire subito con “Thee By The Father I Pray”, uno di quei pezzi di cui sopra, che inizia con un coro cantato in latino, si dipana brevemente in un folk-death melodico fino a chiudere con dei ‘la-la-la’ gorgheggianti e corali, che poi diverranno tipici della formazione asiatica. “Flawless Belief” è il secondo zenit del lavoro, episodio più standardizzato ma comunque ricco di inventiva e originalità, segnato anch’esso da un continuo ricambio vocale e da un lavoro di chitarre pregevole. Con la seguente “Joy” veniamo allietati da una selva di strumenti a percussione per una quarantina di secondi che antecedono “Whisper My Name When You Dream”, una delle tracce preferite di chi scrive, dotata di un retrogusto triste e amaro ben sorretto dalla splendida voce femminile di Hadas Sasi. E’ suo fratello David Sasi, poi, ad interpretare la lunga “Shir Hama’alot”, musica tradizionale ebraica eseguita con accompagnamento di violino e oud solamente: con questo brano, e con il conclusivo e spirituale “Shir Hashirim”, usciamo completamente dall’heavy metal per sprofondare del tutto nel folk medio-orientale, ma è inutile dire quanto bene riescano ad arricchire il disco questi due episodi così atipici alle nostre orecchie (esattamente come la “Itsàri” presente nel succitato “Roots”). “El Meod Na’ala” è tutt’oggi suonata dal vivo dagli Orphaned Land, traccia relativamente breve che unisce benissimo sonorità doom-death metal alla tipica cantilena medio-orientale che fa della melodia e della fluidità il proprio punto di forza. Ci avviciniamo alla fine, quindi, e resta solo il tempo per la dinamica e feroce “Of Temptation Born” e per l’impressionante “The Evil Urge”, nascente come vivace folk song e poi divenente una composizione interamente atmosferica, guidata dal recitato di Kobi e da un riff sfumante finale a dir poco commovente. Non siamo perfettamente sicuri che “El Norra Alila” si meriti mezzo voto in meno di “Mabool” (forse la parità sarebbe più corretta), ma è anche vero che quest’ultimo ha avuto il pregio di sdoganare definitivamente la band al mondo, mentre questo Bellissimo ha ‘solo’ preceduto un misterioso silenzio durato ben otto anni. Otto anni che non hanno però scalfito il coraggio e l’ispirazione degli Orphaned Land, sempre di alto livello ed encomiabili. Da avere, se non altro quale ennesima perla del death metal contaminato dei mid-Nineties.