8.0
- Band: ORPHANED LAND
- Durata: 01:03:31
- Disponibile dal: 26/01/2018
- Etichetta:
- Century Media Records
- Distributore: Sony
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Gli Orphaned Land, lucidati, oliati, revisionati e scartavetrati dalla patina dolciastra che li ha ricoperti in occasione dell’ultimo “All Is One”, desueto ormai di ben cinque anni, sono tornati alla grande, con un nuovo capolavoro di una discografia non immensa, ma mai banale e (quasi) sempre ben al di sopra della media compositiva di qualsivoglia creatura metal. Come appena accennato, “All Is One”, pur essendo stato di buon successo e trasmettente il solito, enorme messaggio di pace e riflessione tra culture tipico della band israeliana, si rivelò chiaramente il punto qualitativamente più basso della carriera della Terra Orfana, uscito in un momento in cui la lineup del combo era in totale divenire: da lì a poco, difatti, la dipartita del fondamentale chitarrista solista Yossi Sassi, che ha lasciato quali unici membri fondatori rimasti Kobi Farhi ed il fido bassista Uri Zelcha. Ma gli Orphaned Land, nel corso della loro storia, hanno sempre avuto una marea di musicisti a gravitar loro attorno e presto, soprattutto in sede live, la nuova formazione ha iniziato a prendere confidenza e a cementarsi per bene. Matan Shmuely alle pelli e Chen Balbus ad una delle due sei-corde hanno trovato in Idan Amsalem il perfetto ‘quinto elemento’, ricreando un’alchimia portentosa e funzionale, anche senza avere in formazione un tastierista e dovendo gestire una notevolissima dose di sezioni orchestrali. Sei soli album sulla lunga distanza in ventisei anni di carriera sono il sintomo di dinamiche compositive senza compromessi, senza forzature, senza bisogno di mantenere caldo il nome, soprattutto quando, all’alba del loro successo stratosferico nelle terre mediorientali, si riescono a vincere premi internazionali per l’impegno nel sociale e a mettere in piedi petizioni on line per assegnar loro il Premio Nobel per la Pace. “Unsung Prophets & Dead Messiahs” ha tutto ciò che ci si attende da un lavoro di questi enormi musicisti e compositori, riprendendo discorsi messi in piedi anni fa, facendoci collocare il disco in questione nel preciso mezzo tra l’indimenticabile “Mabool” ed il successivo, primo passo verso un prog-death metal più maturo e completo (e soft), “The Never Ending Way Of ORwarriOR”. Con un improbabile ma abbastanza azzeccato accostamento, soprattutto a livello concettuale ed orchestrale, ci verrebbe da dichiarare che gli Orphaned Land sono ormai diventati i Blind Guardian in chiave mediorientale e socialmente impegnata. L’enfasi pomposa e roboante delle orchestrazioni e dei cori (tutto registrato ovviamente da orchestrali e cantanti lirici reali, nulla di campionato) si fonde perfettamente con l’epos di ricerca interiore del concept tirato in piedi per questa occasione, che si dipana attraverso una giostra infinita di contorsioni di riff spettacolari, le classiche scale mediorientali, l’uso di voci molteplici e di molteplici strumenti tradizionali: insomma, senza stare a ripetersi ogni volta, saprete benissimo quale tipo di opera d’arte possono creare gli Orphaned Land quando decisamente ispirati. Si era curiosi, soprattutto, di sapere quanto l’apporto compositivo di Yossi fosse reale all’interno degli ingranaggi della band, ora che il loro vecchio compare è solo sul suo cammino: ebbene, al netto di quanto si può sentire sul nuovo disco, possiamo addirittura ipotizzare di come fosse proprio Yossi l’artefice principale della svolta un po’ troppo easy-listening presente su “All Is One”. Gli Orphaned Land, infatti, sono tornati a picchiare un po’ più duro e all’uso più costante del growl, quasi completamente accantonato nel precedente lavoro. Chiaro, non siamo più ai livelli di violenza di “Sahara” o di “El Norra Alila”: ormai il combo israeliano è adulto e completamente maturato, quando vuole usare il suo lato aggressivo lo fa con maggiore cognizione di causa, in modo chirurgico e preciso, ma anche meno sbracato e tout-court rispetto agli esordi. Insomma, da vera grande realtà del metal e della musica mondiale tutta quale è, questa formazione è in grado di plasmare il proprio stile assolutamente inconfondibile e di piegarlo al volere di qualsiasi altro tipo di sonorità, che sia folk (“Yedidi”), thrash metal (“We Do Not Resist”), death metal (“Only The Dead Have Seen The End Of War”), progressive rock (“Chains Fall To Gravity”), progressive metal (“The Cave”) o pop (“All Knowing Eye”). La tracklist è di durata classica, poco sopra l’ora di minutaggio, ma la sua intensità ha il peso specifico del piombo, con ogni traccia che si ritaglia magici momenti solenni ed individuali, facendo passare quasi silenti le prestigiose ospitate di Steve Hackett (assolo di pregio durante la lunga e raffinata “Chains Fall To Gravity”), Hansi Kursch (perfetta la sua ugola, partecipante al primo singolo del disco, “Like Orpheus”) e ‘Tompa’ Lindberg (purtroppo un po’ fuori posto, per mera timbrica vocale, in “Only The Dead Have Seen The End Of War”). In questi casi, nei quali il concept marchia a fuoco in maniera inderogabile le sonorità e dove queste ultime abbracciano davvero tanti scibili sonori, è pressochè inutile procedere ad un track-by-track, ancor più quando la qualità del materiale ha impresso addosso il nome Orphaned Land. Nel nostro piccolo, però, abbiamo già trovato alcuni fra i nostri highlight metallici dell’anno: “The Cave” si assesta tra i cinque-sei migliori pezzi mai scritti dal gruppo; “Yedidi” rinvigorisce la tradizione delle canzoni folkish della Terra Orfana, da cantare e ballare durante i loro concerti; “Left Behind”, infine, è in possesso di un chorus avvincente e coinvolgente come pochi. Un ritorno che in tanti aspettavamo e auspicavamo – arrivando al dunque e tirando le somme – che ripresenta Kobi e compagni in forma smagliante, sotto tutti i punti di vista, e che fa impallidire per spessore di musica e messaggio tanti loro altrettanto blasonati colleghi. Un gruppo che riesce ad elevare ciò che compone ad un livello superiore.