7.5
- Band: ORTHODOX (US)
- Durata: 00:30:04
- Disponibile dal: 07/02/2020
- Etichetta:
- Unbeaten Records
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In ecosistemi hardcore/metal, ogni ambiente cittadino – in questo caso Nashville – dà spunti per far crescere musica problematica, sofferta, che da tempo ha innestato nel proverbiale armamentario di invettive rabbiose, grevi e pungenti un afflato di sofferenza latente, fragilità, prostrazione, ancor prima psichica che fisica. È allora all’interno del calderone metalcore, nella sua accezione più ampia e sfaccettata, che va ad attecchire l’opera seconda su (relativa) lunga distanza degli Orthodox, a tre anni dall’esordio “Sounds Of Loss”. Una mezz’ora densa e umorale, nella quale confluiscono partiture minacciose quanto drammatiche, attraversate da un mal di vivere che possiamo far tranquillamente risalire al disagio esistenziale dell’effimera stagione nu metal. “Let It Take Its Course”, come una buona fetta del metalcore dei nostri tempi insegna, non si presta a interpretazioni scontate, un po’ facendo emergere, un po’ occultando, tutta una serie di sensazioni ed emozioni racchiuse nell’animo dei musicisti.
Slipknot e Korn sono due nomi mai usciti dalla testa dei ragazzi statunitensi, i quali prendono il tipico suono metalcore americano, lo rimpolpano di una profondità e un’oscurità virate al metal estremo, lo caricano di groove psicotici e ci gettano sopra, come ingrediente decisivo, una sequela di vocals che prendono in parti egualitarie dagli squilibri di Jonathan Davis e dai momenti più ‘pensati’ di Corey Taylor. Un istrionismo impregnato di squallori suburbani, vita che gira storta e in declivio verso esperienze pericolose, rabbia a stento repressa e quindi sfogata dissennatamente. Nell’ombra, di nascosto, ecco invece vagare un pensiero cogitabondo e ombroso. Ambivalenze scatenate in piccoli colossi musicali che raramente si abbandonano ad attacchi sconsiderati, piuttosto avanzano pachidermici e relativamente spezzettati, cedendo il posto a sorpresa anche a melodie amare (“Leave”, “Cut”) e, con discreta regolarità, a limacciose coloriture sludge.
Nelle dilatazioni atmosferiche (gli stacchi di “Look At Me”,le velate minacce di “Then It Ends”) gli Orthodox paiono svettare sulla folta concorrenza di picchiatori, mettendosi in un angolo buio e privilegiato, dal quale osservare con cipiglio severo chi rumoreggia e basta, mentre dalla loro musica promana anche raziocinio e un’aggressività più calcolata e, proprio per questo, maggiormente perniciosa. Non c’è dubbio che ad alzare il tiro sia soprattutto lo stile vocale poliedricamente collerico, i parlati, i monologhi ansiogeni, i sussurri sinistri; ma attorno c’è molta sostanza, pesantezza che va al di là dei volumi elevati e della pienezza del suono, ha piuttosto a che spartire con una mole di disagio annichilente e nient’affatto di maniera. Il pianoforte e la voce pacata di “Wrongs” ci consegnano infine un gruppo che sa anche staccare completamente la spina dall’elettricità e mormorare in linguaggi estranei a quelli ‘core’: un segno di maturità, elasticità e consapevolezza che ci sono molti modi per colpire l’immaginario dell’ascoltatore. Gli Orthodox, insomma, non sembrano qualcosa di effimero…