9.5
- Band: OVERKILL
- Durata: 00:56:13
- Disponibile dal: 13/10/1989
- Etichetta:
- Megaforce Records
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Quando si pensa alle più grandi thrash metal band della storia, si vola spesso con la mente agli Stati Uniti e – nello specifico – alla Bay Area, ma vi stupirebbe sapere quante formazioni seminali per il genere trovino la loro origine non in prossimità della famosa baia di San Francisco, ma all’ombra degli imponenti grattacieli di New York. Tra queste, ce n’è una che è riuscita ad avvicinarsi pericolosamente alle formazioni più famose ed inflazionate, superandole talvolta in termini di entusiasmo e ritagliandosi di diritto un posto tra i cosiddetti pesi massimi del genere. Ci riferiamo ovviamente agli Overkill, rappresentati storicamente dal vulcanico vocalist Bobby ‘Blitz’ Ellsworth e riconoscibili dall’inconfondibile logo color verde acceso, oltre che dalla loro mascotte dalle sembianze di un teschio alato.
Nel loro primo decennio abbondante di esistenza questi leggendari thrasher newyorkesi hanno immesso sul mercato cinque album e due EP, tutti etichettabili con l’epiteto di autentici capolavori del genere, e noi siamo qui oggi per prendere in analisi quello che in tanti considerano come il loro prodotto più iconico, riconoscibile e scolpito nel sacro acciaio della storia. Non a caso, quella “Elimination” che pressoché ogni metallaro, più o meno appassionato, ha sentito almeno una manciata di volte nella vita, proviene proprio da questo “The Years Of Decay” datato 1989. Partiamo proprio da essa, in quanto riteniamo che, se esistesse un archivio con all’interno i dieci pezzi thrash per antonomasia, lei ne farebbe sicuramente parte: l’idea di quel ritornello lapidario e scandito perfettamente con voce squillante, nonostante la mole di parole condensata in pochi secondi, abbinato ad un incedere smitragliante e colmo di collera, ci fa balzare sulla sedia ancora oggi in concomitanza del primo riff.
Una caratteristica incredibile di quest’album risiede nella sua varietà e nella riconoscibilità di ogni singola traccia, dettaglio che viene spesso trascurato in produzioni analoghe, con giustificazioni più o meno condivisibili riguardanti la natura stessa del filone. Ebbene, si possono proporre al pubblico canzoni nel senso proprio del termine anche suonando thrash metal, e gente come i Metallica, gli Anthrax o gli stessi Overkill ce lo ha insegnato benissimo: l’iniziale “Time To Kill” prepara l’ascoltatore al massacro servendosi non solo di tanta energia, ma anche di una musicalità che si pianta in testa e da lì non si smuove, e lo stesso si può dire per l’ossessiva e sottovalutata “I Hate”, il cui ritornello maligno ci risuona tra le orecchie ogni volta che ci interfacciamo con chi fa di tutto per metterci in difficoltà nella vita di tutti i giorni. E che dire di “Nothing To Die For” e di quel tagliente assolo di chitarra, ad opera dell’allora chitarrista Bobby Gustafson?
A riprova di quanto appena detto, dopo quattro rasoiate, l’album si rabbuia mettendo dinnanzi al grugno dell’ascoltatore i dieci minuti al limite del doom di “Playing With Spiders/Skullcrusher”, i quali precedono un’altra fucilata come “Birth Of Tension”, a sua volta antipasto della marcia bellica rispondente al nome di “Who Tends The Fire” che, insieme alla successiva e quasi toccante titletrack, ci rammenta come negli anni ’80 le suite fossero ben accette nei dischi thrash metal (d’altronde, appena un anno prima era uscito un certo “…And Justice For All”).
La fine giunge con il gioco di parole di “E.vil N.ever D.ies”, le cui iniziali compongono appunto la parola ‘end’, e lo fanno con una dose di furia ancora maggiore rispetto a tutto ciò che è venuto prima, considerando che il songwriting qui non solo ritorna alla cattiveria iniziale, ma lo fa aumentandone la dose al punto di dare un ultimo calcio ben assestato nello sterno dell’ascoltatore, che con tutta probabilità premerà nuovamente il tasto ‘play’, una volta terminato l’ascolto.
C’è chi dice che la perfezione qualitativa a tutto tondo, frutto della maturazione avvenuta sin dall’esordio, giungerà solo tre anni dopo con l’album “Horrorscope”, che peraltro sancirà anche l’ultimo rintocco prima della grande crisi creativa che ha colpito buona parte del metal americano negli anni ’90. Questa non risparmierà nemmeno gli Overkill, i quali torneranno effettivamente alla ribalta solo nel 2010, grazie a quella bomba inaspettata intitolata “Ironbound”; in maniera similare a diversi altri loro colleghi, nuovamente in forma dopo tanta mediocrità. La nostra opinione è abbastanza concorde con ciò, ma riteniamo fosse impossibile, essendo ormai a ridosso del suo trentacinquesimo anno di età, non dedicare una recensione a quello che per molti è IL disco degli Overkill per antonomasia, e che riteniamo dovrebbe trovare un posto nella collezione di ogni metallaro che si rispetti; anche perché, a prescindere dai tentativi di innovazione, ogni giovane band si ispira comunque ai grandi classici, e questo è indubbiamente uno di quelli.