7.5
- Band: PAIN OF SALVATION
- Durata: 00:48:36
- Disponibile dal: 10/11/2014
- Etichetta:
- Inside Out
- Distributore: Universal
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Quando gli ultimi quattro dischi prodotti entusiasmano nettamente meno dei quattro che li hanno preceduti, quando sulla barca non è rimasto più nessuno della line-up originaria tranne il leader e quando arriva la pubblicazione del secondo live album acustico della carriera, è normale che i fan sentano puzza di bruciato. E temano si stia raschiando il fondo del barile. Pensieri leciti, giustificabili alla luce del controverso percorso stilistico intrapreso dai Pain Of Salvation da “Be” in avanti, un sentiero segnato da molti input fatti convivere in maniera non sempre coerente e, nell’ultimo paio di dischi, “Road Salt One” e “Road Salt Two”, preoccupantemente indirizzato verso un revivalismo nostalgico di cui la band mai era stata portatrice nella fase ascendente di carriera, fino a “Remedy Lane”. “Falling Home” poteva essere l’ennesima conferma dell’appannamento inventivo di Daniel Gildenlöw e della sua compagine e non deponeva a favore dell’operazione la genesi stessa dell’opera, segnata quanto meno da un certo alone di sfiga fantozziana. La registrazione del live doveva infatti tenersi in una data tedesca dell’ultimo tour, nel 2012, quando la band suonava nelle varie venue in una cornice simile a quella del salotto casalingo – da qui la scelta del titolo e l’immagine in copertina – ma alcune problematiche tecniche lo hanno impedito, costringendo il gruppo a suonare in presa diretta all’interno della propria sala prove. Il fatto che già in passato i Pain Of Salvation si fossero avventurati in una rilettura acustica dei loro cavalli di battaglia, con “12:5” del 2004, poteva far pensare ad una minestra riscaldata, ma avuto finalmente tra le mani il disco, ci siamo dovuti ricredere. A dire il vero, crediamo che “Falling Home” possa rappresentare una ripartenza per gli svedesi, un segnale che il fuoco cova ancora sotto la cenere e ci sia il desiderio di ritornare a dare spettacolo come all’epoca dei fortunati “One Hour By The Concrete Lake” e “The Perfect Element I”. Molto semplicemente, il lotto di canzoni presenti, suddiviso fra “hit” della storia passata, un paio di cover (“Holy Diver” e “Perfect Day” di Lou Reed) e un inedito (la title-track), viene completamente stravolto da nuovi arrangiamenti, che rendono pressoché irriconoscibile quasi tutto il materiale, e ce lo rivelano sotto una luce completamente diversa. Oltre alla mancanza di elettricità, è proprio l’approccio a cambiare e l’istrionismo di Gildenlöw, acquietato negli ultimi anni, ritorna prepotentemente a spadroneggiare, insieme alla sua splendida e rilassata vocalità. Si passa da una meraviglia all’altra, scartando uova di Pasqua di cui riconosciamo l’involucro, ma non quello che c’è dentro, e ogni volta ci accorgiamo di pescare una sorpresa che non ci aspettavamo e la osserviamo in modo interrogativo, cercando di capirne il significato. L’unico vero momento di caduta nell’anonimato è rappresentato dalla title-track, una ballata per voce e chitarra prevedibile e priva dell’eccentricità che è invece il sale delle restanti proposizioni sonore. Il divertimento inizia subito, con la datata “Stress”, che regala momenti di adrenalinico rock Anni ’50-’60, lasciando scampoli d’azione a tinteggiature jazzate. Non è che il primo passo di un restyling in direzioni lontane dal metal, perseguito in miriadi di modi diversi. I fili conduttori sono voci delicate e mutevoli, elastiche ed estremamente duttili, con un ampio ricorso a polifonie, note basse cantautorali, impennate umorali, una generale morbidezza pervasa da grande serenità e purezza. Gildenlöw non sbaglia una nota qua dentro e trova ottime sponde negli altri musicisti, permettendo soprattutto al materiale recente di uscire rinvigorito dall’operazione di stravolgimento compiuta. Le impetuose stratificazioni vocali di “Linoleum” provocano un’ascesa emozionale da brividi e la prelibatezza di “To The Shoreline” è anche maggiore, grazie a marcate atmosfere morriconiane e rotture country/folk, con un altro sottofondo vocale di pregio a tenere assieme il tutto. La rilettura di “Holy Diver” potrebbe far gridare al reato di lesa maestà, ma una volta condivisa l’ottica con cui i Pain Of Salvation vi hanno lavorato sopra si dovrà concedere almeno l’onore delle armi alla band, perché la trasfigurazione del cavallo di battagli di Ronnie James Dio in uno swing da night club con contorno di cori soul e movimenti reggae è tutto fuorchè una bieca cialtroneria da impostori. I ragazzi fanno un’ottima figura anche in “Perfect Day” di Lou Reed, in questa veste assimilabile a una outtake beatlesiana. Per i cuori più sensibili, è d’obbligo soffermarsi sulla ballata medievale dal retrogusto fosco e amaro di “Chain Sling”, oppure su “Mrs ModernMother Mary”, dove le voci ingentilite del mastermind fanno il bello e il cattivo tempo e si possono sentire brevi gorgheggi in falsetto da manuale. Se dovete andare a caccia di adrenalina a tutti i costi, eccovi il flamenco rovente di “Flame To The Moth” , grazie al cantato imbizzarrito di Daniel il momento più energetico del disco, oppure testare la vostra apertura mentale sul rappato di “Spitfall”. Difficile da digerire di primo acchito, questa prolungata manovra di effrazione dai confini stilistici del metal, violati comunque più volte dagli stessi Pain Of Salvation negli album “regolari”, si rivelerà uno dei passaggi più interessanti del cd. Non è il punto di partenza migliore per i non fan questo live, mentre per i fedelissimi della formazione di Eskilstuna potrebbe essere un segnale di speranza per il futuro.