7.5
- Band: PAIN OF SALVATION
- Durata: 00:53:29
- Disponibile dal: 28/08/2020
- Etichetta:
- Inside Out
- Distributore: Sony
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Per lunghezza della carriera, importanza, quantità e qualità di uscite, i Pain Of Salvation possono ragionevolmente essere definiti una band ‘classica’. Come i Dream Theater, i Fates Warning e i Queensrÿche, rimanendo tra i nomi prog di maggior calibro. Quando un gruppo diventa ‘classico’, i suoi seguaci tendono a diventare sempre meno propensi ad accogliere le novità, troppo legati come sono a un certo ideale di suono. Allo stesso tempo, la fanbase ha sempre quel malcelato rimpianto per gli album che hanno delineato l’identità del gruppo e quindi, anche a fronte di nuovi prodotti di valore, fatica a riconoscerne i meriti e a concedere loro la necessaria attenzione. Questo per dire che un’entità camaleontica e in costante trasformazione come quella capitanata da Daniel Gildenlöw, nonostante gli ammiratori più fedeli, abituati ai rimbalzi stilistici e allo stravolgimento dei riferimenti da un’uscita all’altra, non abbia gioco facile nell’essere compresa quando sforna un nuovo album. Reduci dal mirabolante “In The Passing Light Of Day” – dove il toccante concept costruito attorno alla malattia sofferta dal mastermind nel 2014 andava a connettersi in un prog metal duro, tentacolare, disseminato di parentesi intimiste accanto a riff e cadenze massacranti – gli svedesi escono ora con un disco di ben più ardua comprensione.
Come anticipato nel track by track di qualche settimana fa, ci vorrà del tempo e della pazienza per capire esattamente le mire di Daniel, che come dichiarato nella presentazione dell’album ha voluto sperimentare in direzioni mai provate prima, pur senza stravolgere quello che è lecito attendersi dalla sua band. Il fattore di rottura più rilevante, quel punto di attenzione che va a solleticare la curiosità e a dare un’impronta profonda all’intero “Panther”, è un cospicuo uso dell’elettronica, caratterizzante in particolare il primo terzo dell’album. Quello che coi due singoli “Accelerator” e “Restless Boy” e l’altrettanto scura e poco scorrevole “Unfuture” ci porta in un mondo fosco, nuvoloso, corrucciato e dal sorriso smarrito. Ritmi spezzati, sconnessioni, un senso di vaga, desiderata, incompiutezza, una voglia di lasciare i discorsi a metà perché concluderli proprio non si riesce, ci porta coi primi tre pezzi in ambientazioni frammentarie ed elusive, che pur in un catalogo non avaro di sperimentazioni come quello dei Pain Of Salvation, paiono lontane da qualsiasi altra cosa Gildenlöw abbia prodotto in precedenza.
A partire da “Wait”, ricompaiono temi ricorrenti nella discografia dei Nostri, una sofficità e distensione che sappiamo riconoscere, ma che solo in parte si concedono alla linearità e a una forma canzone di veloce assimilazione. Assestate su tonalità basse, spesso parlate e mormoranti, le vocals si concedono metriche eccentriche e un’ampia gamma di soluzioni, bilanciate magistralmente fra intimismo, energia, turbamento e urla liberatorie. Manca il contraltare dato dalla cristallina ugola di Ragnar Zolberg (messo alla porta con modi non propriamente eleganti nel 2017), musicista che, Daniel non lo ammetterà mai, aveva avuto un certo peso nelle speciali atmosfere e arrangiamenti di “In The Passing Light Of Day”. In canzoni come “Keen To A Fault” e “Species” si dà sfogo alle velleità di narratore del leader, che esplora riflessioni dolenti, armato di chitarra acustica e tastiere, vero centro focale a discapito degli elementi prettamente metal. Tende a disorientare “Panther”, anche in una titletrack che parte arrembante e funambolica come nei migliori episodi metallici del passato, e che improvvisamente guarda altrove, svia dal sentiero di singolo bombastico, per acquattarsi in una terra di mezzo fatta di dramma, fragilità e disorientamento. La drammaticità e il gusto per la teatralità e un’emotività complessa, labirintica, sono probabilmente il punto di congiunzione più saldo con quello che sappiamo dei Pain Of Salvation, che chiudono alla loro maniera con un grande affresco sonoro, “Icon”, nel quale non si può non ritrovare il gusto per le sonorità settantiane e il raccontarsi calmo e disincantato del rock/folk a stelle e strisce, uno dei tanti spiriti guida di Gildenlöw.
La qualità della tracklist non è affatto altalenante, piace il coraggio con cui il gruppo è andato a cercare nuovi linguaggi e ha condotto il suo pensiero in una maniera non subitamente comprensibile, seppur nient’affatto fumosa o fuori fase. D’altro canto, al momento non riusciamo a indicare canzoni che ci abbiano emozionato così tanto da poterle accostare ad altri grandi classici firmati Pain Of Salvation. Gli highlight di pura classe non sono così evidenti e qualsiasi paragone con un “Remedy Lane”, “The Perfect Element I” o l’energico “In The Passing Light Of Day” vedrebbe oggi “Panther” irrimediabilmente sconfitto. Il bilancio è in ogni caso di gran lunga positivo, non fosse altro per quella ricercatezza e caparbietà nel rimodellarsi che fa del combo nordico una realtà guida dell’intero movimento prog mondiale.